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EDITORIALE

In questa nostra repubblica -da taluno rinominata giudiziaria tanto appare pervasa dalla cronica sostituzione del lavoro (Cost. art. 1) con il meno impegnativo, ma più redditizio, furto- tutti i cittadini di buona volontà (qualche cretino lo si trova sempre) hanno tirato un lungo sospiro di sollievo alla chiusura di EXPO, evento che, partito male e peraltro ancor prima di partire segnato a lungo da irresponsabili beghe di personali poteri, ha dato nondimeno dimostrazione che (anche) in Italia, volendo, qualcosa di buono si è ancora capaci di fare, nonostante tutto e le compagnie di cui non ci si riesce a liberare.

E nonostante la desuetudine a fare bene e terminare in tempo, tanto che perfino il presidente della Repubblica se ne è (giustamente) rallegrato.

In questo marasma quasi senile del Paese dove non sembra esserci soggetto pubblico, in specie se importante, indenne dall’influenza tanto che perfino i media saltabeccano da una notizia all’altra, tante ne hanno a disposizione per raccontare l’ultima, è apparso come eccezionale che un evento importante sia stato realizzato in concreto e nei termini (al netto di altri dati, fra i quali il rapporto costi-ricavi allo stato non ancora disponibili, e del ‘dopo EXPO’ per il quale, visti i prodromi, è consigliabile incrociare le dita): vale a dire, siamo tanto abituati al peggio, che quanto dovrebbe essere la norma costituisce un’entusiasmante novità, mentre in un ambiente civile e meno debilitato e più pulito l’insuccesso o le manette dovrebbero essere l’eccezione. Ma per ora accontentiamoci.

Piuttosto ritorna, fastidiosa, la ricorrente domanda: come mai?

Senza imbarazzanti paragoni (anche all’estero hanno, all’evidenza, i loro malandrini), è vero o no che da noi c’è meno senso civico rispetto ad altrove, considerando il civismo come un’attitudine a porsi nei confronti delle cose comuni in misura sufficientemente costruttiva e senza considerare (in primis) solo e sempre il proprio vantaggio e ad ogni costo (illegalità compresa)?

E’ sfortunatamente vero per obiettive motivazioni storiche: natura non facit saltus nemmeno in politica e ci vuole tempo anche per fare crescere uno Stato. L’itala gente è passata -per ultima in Europa- da secoli di servaggio (un volgo disperso che nome non ha) a un’unità cui presto, oltre a due guerre mondiali, è stata sul collo una lunga dittatura seguita dalle pertinenti cattive abitudini, facili da prendere e meno da togliere. Specialmente da chi, per tradizione, è incline all’inchino e alla piaggeria.

Ma anche per un altro motivo: la progressiva scomparsa sia dell’educazione in sé (a cominciare da quella civica, che è il denominatore comune di un Paese) sia del suo strumento (la scuola). Il cittadino esce farfalla con le ali (si fa per dire) dal bruco solo se qualcuno per qualche tempo lo accudisce (diversamente esce come è venuto: bruco e pure con denti cresciuti) e questo qualcuno sono, normalmente, la famiglia e la scuola in stretta connessione reciproca (la prima con la sostanza dell’esempio e la seconda con la sostanza della cultura condivisa nell’ambito di regole sociali prodromiche e necessarie al poi).

I due soggetti hanno smesso di cooperare da tempo (ricorderete quando i genitori, più che controllare se i figli studiavano, ricorrevano al TAR per far promuovere i somari?) o, nella migliore delle ipotesi, si ignorano dando ciascuno per scontato o auspicato che sia l’altro a provvedere. Ovviamente lo scenario ha le sue eccezioni, perché diversamente saremmo già definitivamente aggregati al quinto mondo, ma il piano è inclinato e scivoloso.

A molta parte dei cittadini cui lo Stato riconosce patente di guida e capacità di voto mancano educazione personale, civica, cultura sufficiente ed esempi. Anzi, no: di questi ce ne sono in abbondanza, a tutti i livelli, ma sovente non nella giusta direzione. Con questo equipaggio e con questi ufficiali di bordo, dove vogliamo andare?

La scuola, tra l’altro, è l’istituzione che ha avuto la (s)ventura di ricevere più riforme di ogni altra e ricordarlo oggi in tempo di riforme epocali è come portare il cane in chiesa: forse è proprio il fatto di essere una riforma continua che l’ha demolita riducendola a un’ombra.

Ma solo dalla scuola si può e si deve ripartire, investendo il tempo e le risorse necessarie ed avendo la necessaria pazienza poiché l’inizio è dagli insegnanti.

Non è un caso che le utopie filosofiche e politiche abbiano sempre sognato di sottrarre i bambini alle famiglie non appena possibile per garantire loro la strada della cittadinanza. Il metodo è ancora più pericoloso, se mai possibile, del difetto che vorrebbe correggere o dell’obiettivo che si proporrebbe di raggiungere, ma rimane indicativo del fatto che l’educazione, in senso lato, è riconosciuta condizione prima ed ineludibile ove appena si abbia l’obiettivo di cooperare alla costruzione di una società civile accettabile.

Nella quale, per esempio, anche un vizietto come il furto (e in particolare di denaro pubblico) non sarebbe probabilmente eliminato, ma quantomeno arginato dalla riprovazione effettiva e manifesta della, appunto, società civile (anche per fatti concludenti: come il non dare il proprio voto al disonesto, invece di invidiarlo ed aspirare a fargli da porta-borsa) e non solo dai pur necessari, sfortunatamente, carabinieri e giudici.

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