La soglia del rumore

Quando andavo a scuola se dalla classe si alzava qualche brusio di rilassatezza fuori ordinanza, ricordo che i professori lungi dall’alzare la voce con la quale stavano spiegando l’abbassavano e se si voleva continuare a percepire le loro parole bisognava giocoforza tacere.
Il valore della parola si misura, anche, in rapporto al rumore di fondo dell’ambiente nel quale essa è rilasciata: alzare la voce progressivamente per sovrastare una soglia ritenuta ostacolo e, quindi, nella prospettiva di farsi ascoltare da chi già parla non raggiunge lo scopo, ma aumenta fino a livelli intollerabili il rumore causando, da un lato, maggior ed inutile fracasso e, dall’altro, assuefazione. In questo modo non c’è dialogo, ma unilaterali enunciazioni che lasciano il tempo che trovano quando, maggiormente, non producano esse stesse danni.
Allo stesso modo le parole a disposizione sono molte e ciascuna avrebbe, in realtà, un suo significato utile per dare valore e peso al discorso: se si usano sempre termini estremi è evidente che, come la soglia del rumore alta impedisce l’ascolto, così la drammatizzazione verbale impedisce, alla fine, la comprensione dei fenomeni.
Se per qualsiasi argomento siamo sempre in guerra, sempre all’ultima spiaggia, sempre (e da anni) a tempo inderogabilmente scaduto, sempre sull’abisso, sempre alla macelleria sociale, è evidente che l’usura terminologica produca soprattutto rumore e incomprensibilità (ancor prima di incomprensione).
Non dico di copiare l’understatement, perché ciascuno ha il suo carattere, ma di mettere serietà e attendibilità nell’uso delle parole che devono servire come tali, non come sassi. Diversamente rompono solo i vetri (e non solo).
Le difficoltà da superare richiedono, come pre-requisito, educazione e rispetto dell’altro. Se no è violenza -quantomeno tentata- e non confronto, mero parlare e non fare, sterile tattica e non un serio tentativo (quantomeno) di lungimirante strategia.

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