Sic transit gloria mundi

Detto con il senno del poi non è mai bello, come peraltro ogni altra cosa a posteriori. Anzi, è ingeneroso e diventa volgare.
E poi Sic transit, detto antico (risale all’Imitazione di Cristo, anonimo testo monastico del XIII secolo) che indubbiamente racchiude una verità grande e incontrovertibile, non è comunque da comunicare ad un altro uomo (senza con questo volere mancare di rispetto alla liturgia pontificia, a proposito della quale chi sa mai se queste parole non abbiano provocato qualche silenzioso e riservato scongiuro da parte di taluno fra i successori di Pietro), ma da ricordare anzitutto -e sempre- a se stessi.
Specialmente se si detiene o si gestisce una qualche forma di potere (che, come ogni altra cosa umana, è concessa in amministrazione precaria e non mai in proprietà): da ripetere ogni mattina e davanti allo specchio prima d’indossare, per chi non può farne a meno, la maschera (di solito poco simpatica) suggerita o prescritta dalle moderne tecniche di efficace comunicazione.
Viceversa siamo costretti a dover rimanere nella poco consolante constatazione che nonostante il progresso di civilizzazione dei popoli, il pendolo dei comportamenti -beninteso sempre occhiutamente a carico degli altri- oscilla in malinconica continuità fra la desolazione del servo encomio (prima) e del codardo oltraggio (poi).
Alessandro Manzoni ne scrisse con intelligenza e pietà, indagando con poetico acume un laido e diffuso costume, passato e presente e futuro, a proposito di un moderno principe emblematico ed in occasione della sua solitaria morte (5 maggio 1821).

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