HomeDialogandoNewsletterApprofondimentoAPPROFONDIMENTO: La meditazione Anapana. La bellezza di una mente tranquilla

APPROFONDIMENTO: La meditazione Anapana. La bellezza di una mente tranquilla

Nella serata del 17 marzo si è tenuto nella sede di Milano della Fondazione il secondo incontro del Training di meditazione ‘Il millenario cammino orientale verso il benessere’ condotto da Elena Greggia. Di seguito una breve sintesi.

La meditazione Anapana. La bellezza di una mente tranquilla.

Anapana è la più antica e la più fine delle tecniche di meditazione. La sua semplicità e potenza -anche per l’uomo d’oggi- derivano dal fatto che essa si poggia sull’ascolto del respiro; non ha bisogno d’altro. E il respiro è sempre con noi. Anapana può essere usata sia per Samadhi (concentrazione o mente tranquilla) sia per Vipassana (comprensione o chiara visione). Portate l’attenzione in ogni momento al respiro…

 

La nostra mente è come un uccello che continuamente vola, qua e là, catturata da oggetti, immagini, stati mentali. E noi diventiamo quegli oggetti, immagini, stati mentali. Possiamo poggiare la mente sul respiro, alla base del naso. Come un pappagallo che si poggia sul trespolo: da lì, vede con più chiarezza.

Quando la percezione (la coscienza) del vostro respiro sparisce (o diventa grossolana, magari perché siete in ambienti quotidiani) prendete una zona d’attenzione più ampia, attorno all’area delle narici. E quando siete più concentrati, lavorate per rendere progressivamente molto piccola quest’area d’attenzione; molto piccola, andando più da vicino. Il respiro diventerà molto soffice. E la mente molto fine, per sentirlo. Troverete che questo porta grande benessere e limpidezza. Sarà utile poi per la vita quotidiana.

La meditazione non è un ‘fine’ in sé ma un esercizio -gentile- che facciamo per i frutti che porta. Molti frutti. E i frutti vengono dall’esercizio, non dall’aver ‘capito’ con la mente. Ecco perché occorre fare un esercizio. C’è un termine thailandese che spiega molto bene questo fenomeno: kan giài, che significa ‘dentro il cuore’.¹

 

L’importanza della posizione

Nel fare questo esercizio (quando lo svolgiamo in momenti dedicati e non, per esempio, mentre guidiamo o svolgiamo altre attività) poniamo attenzione alla nostra posizione.
A ogni posizione del corpo, corrisponde una posizione della mente. Dunque, meditando, assumeremo una posizione composta e gentile, ma sostenuta. Sufficientemente rilassata e priva di tensioni, ma energica. Evitiamo, in questa posizione, di indulgere tanto nella tensione eccessiva del corpo, quanto nel torpore: “No too tens, no too relax” dicono i maestri. Indicando: “Non troppo tesi, non troppo rilassati”.
Se siamo tesi, la mente sarà dura o inquieta. Se siamo troppo rilassati, non otterremo alcun frutto di chiarezza. Una posizione… gentile. Si addestra nel tempo. Molte sono le insidie e le tendenze alla comodità eccessiva. Trovo gustoso -nel parallelo della cristianità- un brano riferito ai monaci Certosini che dipinge bene gli effetti della eccessiva tendenza all’indulgenza² : per essi la posizione di preghiera è solitamente in piedi poiché corrisponde a una posizione energica e attenta della mente. Nel Cristianesimo delle origini, invece, i Padri del deserto meditavano nella classica posizione seduta a gambe incrociate, che si usa anche in oriente, e che corrisponde alla posizione di massima energia, ma senza tensione. In ogni caso, i meccanismi della mente -che esagera nella durezza o indulge al torpore- sono i medesimi.

 

Sperimentate: il respiro alla base del naso è sempre con voi, anche ora. E i frutti appariranno.
La mente, per mezzo delle qualità del Samadhi, acquista freschezza e limpidezza e Vipassana (la vostra visione nella vita) ne risulterà ristorata.
And so we continue

 

Elena Greggia
Orientalista e ricercatrice, Milano

 

¹ “Abitualmente molte cose noi vediamo e comprendiamo, ma poi nulla cambia (o ci costa fatica o lotta o una forza di volontà che non sempre abbiamo). Perché una comprensione ci trasformi davvero e spontaneamente, occorre infatti che essa entri nel corpo, nel cuore. Kan giài dicono gli orientali: è il termine thailandese che essi usano per indicare questa realtà, questo fenomeno. Kan significa entrare e giài significa dentro il cuore. Ecco perché serve un addestramento: perché questo “capire” abbandoni la testa ed entri gentilmente nel corpo, nel cuore. E dunque, kan giài! Iniziamo dal nostro respiro…” (da E. Greggia, Una mente luminosa, I Libri del Casato, 2016, pag. 101).

² “… l’acedia [pigrizia, svogliatezza] combatte il monaco quando sta in piedi. Lo invita a sedersi sul banco del coro, con i piedi incrociati o l’uno sopra l’altro. Lo seduce a sedersi su una seggiola o su uno sgabello, benché sia meglio stare in piedi davanti a Dio. Una volta che sei seduto l’acedia t’incoraggerà ad appoggiarti alla spalliera, o meglio, poiché sei seduto, t’incoraggerà ad appoggiare la schiena contro la spalliera. Solleciterà chi sta in piedi a piegarsi leggermente e ad appoggiarsi contro il muro…” (da Commentaire de l’Echelle du Paradis, in Opera Omnia, 28, pp. 221-225, di Denys le Chartreux).

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