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APOCRIFA: Homo sapiens

Un gruppo internazionale di paleontologhi, per il tramite di scoperte di nuovi fossili e di utilizzo di tecniche e strumentazioni sempre più sofisticate, retrodata sensibilmente l’apparizione sulla terra del prototipo di homo sapiens: non più i 195.000 e rotti anni che ne collocavano la culla in Etiopia, ma i 300.000-350.000 anni che, allo stato, individuano invece il Marocco.

Rimaniamo comunque sempre nella zona del Nord Africa e delle faticose scoperte scientifiche che procedono lentamente e a piccoli passi e la notizia è destinata, segnatamente, più a un contenuto uditorio di esperti e interessati che al grande pubblico al quale, considerando tra l’altro le attuali tendenze alimentari e dietetiche (tracimate perfino in politica), non piacerà apprendere che desso era uso cibarsi voracemente di gazzelle, gnu, zebre e uova di struzzo.

Appena fuori dalla novità di scienza, in realtà sorge però spontaneamente qualche considerazione di senso più filosofico.

Raddoppiare, più o meno, il termine iniziale della comparsa ominide sulla terra non ha, a ben vedere, rilevanza alcuna se non per la paleontologia: siamo, e rimaniamo, gli ultimi arrivati dopo circa 13,7 miliardi di anni trascorsi dal così detto Big Bang e dopo che la vita sembra sia comparsa, da noi, solo 3,6 miliardi all’incirca di anni or sono.

La vicenda che ha portato alla comparsa dell’umanità quale tendiamo a considerarla allo stato delle conoscenze è comunque stata (secondo i nostri parametri soggettivi che non contemplano i tempi reali) lunga, irta di difficoltà, caratterizzata da una conoscenza sostanzialmente ancora carsica e verosimilmente non terminata, ma in fieri sebbene in modo, quantomeno a livello empirico, non avvertibile.

Una ineludibile (all’osservazione) caratteristica di questo strano essere che è l’uomo, la cui evoluzione sembra essersi separata da quella delle grandi scimmie 6 o 7 milioni di anni fa, è di portare seco uno sconcertante dualismo, sostanzialmente refrattario ai benefici evoluzionistici, che in vario modo e con alterne risultanze affatica del pari la scienza, la filosofia e la teologia: essere, infatti, in grado di pensare e compiere cose eccelse e cose infime, il bene più luminoso e il male più oscuro.

Una divisione esistenziale quasi di ispirazione manichea all’applicazione della quale non sfugge la storia umana che, da sempre, condivide ominosità et umanesimo in misure e proporzioni tendenzialmente quasi sempre poco rassicuranti, anche se (forse) mai al punto da spegnere, quantomeno negli spiriti migliori, la speranza e quindi la disponibilità e la dedizione verso gli altri corrispondenti ad una cooperazione, ciascuno per la propria competenza, nella costruzione del futuro o almeno per il traghettamento della vita verso il futuro.

Divisione esistenziale sulla quale, affaticandosi nel tempo, lo spirito tenta di intravedere una risposta al fondamentale e irrisolto problema del male: trovarsi a quei tempi faccia a faccia, nella savana, con uno o più di questi nostri ingombranti antenati poteva verosimilmente corrispondere all’ultimo atto (in senso figurato, ben inteso) di una esistenza personale, così come lungo il dipanarsi del tempo nella storia è sempre stato presente e operante, con i rispettivi parametri differenziali dovuti all’evoluzione, l’uomo malamente pericoloso e funesto per il suo prossimo e tuttora questo avviene con sconcertante e precisa ripetitività in tutto il mondo, sebbene non sempre, per fortuna, con il medesimo grado di efficacia.

Possiamo accettare che l’irenica visione poetica ottocentesca (Dal dì che nozze e tribunali ed are dier alle umane belve esser pietose di sé stesse e d’altrui…) tracci una sorta di ideale displuvio, molto lontano nel tempo, che in poche ma corrette parole sintetizzi il cammino nondimeno lungo e barcollante della civilizzazione facendone carico, in sostanza, a Dio e agli uomini stessi (quelli con la speranza), ma non riusciamo a chiudere gli occhi (facendolo tradiremmo la civiltà che a tanti è costata la vita stessa) di fronte alle bestie attuali che continuano a scorrazzare, a loro uso mucido et ominoso non disgiunto neanche forse da un invertito senso, comunque patologico, di potere sul prossimo, nello spazio comune.

E lascia senza fiato che soggetti comunque diversi per etica e cultura, o apparentemente più normali, non rinuncino alla mescolanza con il male, ma lo accettino dissennatamente e colpevolmente in nome del denaro, come ad esempio con la vendita delle armi laddove se questo non avvenisse a molte fra l’empie bestie in circolazione non rimarrebbe che sfogare i propri istinti picchiandosi ossi (o ossa) sul cranio, come nel prologo di Odissea nello spazio.

Sì, diciamo pure che non se li porta tanto bene, i suoi 350.000, questo povero uomo desolatamente e inutilmente sapiens e che li dimostra proprio tutti.

LMPD

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