HomeDialogandoNewsletterApprofondimentoL’APPROFONDIMENTO – Inquinamento atmosferico cittadino

L’APPROFONDIMENTO – Inquinamento atmosferico cittadino

Con l’approssimarsi della brutta stagione ritorna ciclicamente anche la polemica e la preoccupazione circa lo stato critico in cui versa l’aria nelle città italiane sebbene, come già rilevato in un precedente intervento, nemmeno con il bel tempo ci si possa dire immuni da sorprese spiacevoli.

Legambiente (Dossier Mal’aria 2019) ha scattato istantanee molto nitide di uno scenario che, in sostanza, non accenna a migliorare e che traccia un impressionante quadro di ben 55 capoluoghi di provincia in cui sono stati superati i limiti giornalieri previsti per le polveri sottili o per l’ozono (35 giorni per il Pm10 e 25 giorni per l’ozono). In 24 dei 55 capoluoghi il limite è stato superato per entrambi i parametri, con la conseguenza diretta, per i cittadini, di aver dovuto respirare aria inquinata (fuorilegge) per circa 4 mesi nell’anno. La città che lo scorso anno ha superato il maggior numero di giornate fuorilegge è Brescia (Villaggio Sereno) con 150 giorni (47 per il Pm10 e 103 per l’ozono), seguita da Lodi con 149 (78 per il Pm10 e 71 per l’ozono), Monza (140), Venezia (139), Alessandria (136), Milano (135), Torino (134), Padova (130), Bergamo e Cremona (127) e Rovigo (121). Tutte le città capoluogo di provincia dell’area padana (ad eccezione di Cuneo, Novara, Verbania e Belluno) hanno superato almeno uno dei due limiti. La prima città non ubicata nella pianura padana è Frosinone, nel Lazio, con 116 giorni di superamento (83 per il Pm10 e 33 per l’ozono), seguita da Genova con 103 giorni (tutti dovuti al superamento dei limiti dell’ozono), Avellino con 89 (46 per il Pm10 e 43 per l’ozono) e Terni con 86 (rispettivamente 49 e 37 giorni per i due inquinanti).

Le cause potranno non essere sempre ovunque le medesime o rilevanti nelle stesse proporzioni (a Milano, per esempio, una parte pesante di responsabilità è addebitabile anche ai sistemi di riscaldamento), ma un fatto è che 38 milioni di automezzi, di cui solo una parte dotata di moderni propulsori, in continua circolazione rivestono un ruolo fondamentale nel processo di inquinamento dei territori.

I dati, poi, dei decessi prematuri causati dalla respirazione dell’aria fuorilegge stimati dall’Agenzia Europea per l’Ambiente aggiungono un’ombra sinistra in particolare a fronte di una carenza generalizzata di operazioni strutturali di contenimento e di recupero.

A parole sembra che l’attenzione responsabile sia in aumento (oramai in molti si riferiscono alla mobilità sostenibile come a una meta obbligata), ma il processo rimane vischioso e condizionato da impensabili asimmetrie.

L’offerta di sostituzione del mezzo privato con quello pubblico non è banale come sembra quando lo si declama in teoria, ma richiede strategie, capacità e investimenti molto pesanti e articolati sia in strumentazioni organizzative (le aziende di trasporto pubblico devono poter aumentare sensibilmente la propria capacità) e infrastrutture sia in mezzi più moderni e solo qualcuno si sta muovendo.

Nella maggioranza dei casi ai proclami ambientalistici dei politici amministratori responsabili fanno eco, nei fatti, ristrettezze e tagli di risorse da destinare allo sviluppo efficace ed efficiente del pubblico trasporto e quindi non si oltrepassa, per definizione, il velleitarismo: ci saranno senz’altro gli automobilisti incalliti o fanatici che usano l’auto anche per andare prendere il giornale, ma buona parte di chi si condanna alle estenuanti code automobilistiche di (lungo) pendolarismo mattutino e serale su tangenziali e superstrade e nastri d’asfalto in genere lo fa anche perché non ha, in effetti, alternative potabili.

Normalmente i servizi nelle zone cittadine centrali sono efficienti, ma la curva cade rapidamente se si considerano le zone periferiche o esterne e, a maggior ragione, il tempo serale o notturno per non dire, poi, dei fine settimana e dei festivi in genere.

Onde il servizio pubblico finisce per coincidere, più o meno, con un pendolarismo studentesco e di lavoro su direzioni standardizzate e questo interessa sia la strada ferrata (utilizzabile per le linee di forza) sia la modalità della gomma che è bensì più agile e più adatta, per la sua potenziale capillarità, a una risposta maggiormente analitica verso la domanda di mobilità, ma condizionata dalla persistente carenza di risorse e investimenti oltre che di efficaci strategie atte a superare gli interventi unicamente contingenti o estemporanei non mai risolutivi.

Problema nel problema sono poi le numerose aziende di trasporto a capitale pubblico cittadine che, sottratte a qualsivoglia istanza migliorativa o di confronto competitivo (le gare a evidenza pubblica per affidare i contratti di servizio pagati dalle risorse pubbliche), ma circondate dal consociativismo socio-politico territoriale che mette d’accordo, a turno, qualsivoglia colore politico, continuano a drenare nella (quando va bene) inefficienza, lasciata irresponsabilmente loro dalla politica specialmente locale, quantità ingenti di denaro che potrebbero viceversa essere utilmente spese in prospettiva strategica.

Per realizzare un cambio di passo (anche di cultura) di questa portata sarebbero necessari anni di una coerente strategia e basta questo, in troppi casi, a far sì che la politica, la quale cerca risultati di apparenza immediata a scopi elettorali, preferisca l’effetto annuncio al lavoro effettivo.

In ogni modo la direzione è, praticamente, obbligata e un tasso di motorizzazione di circa 65 auto ogni 100 abitanti dovrà, prima o poi, spingere a prendere decisioni coerenti anche in termini di corretta programmazione delle infrastrutture.

E’ evidente che le grandi e moderne città europee, alle quali riesce (non sempre) a traguardarsi la sola Milano, hanno reti di trasporto su ferro per la mobilità dei cittadini (ferrovie suburbane e metro) più estese, efficaci ed efficienti, ma godono, contemporaneamente, anche di una ben più ampia capacità e disponibilità a progettare e realizzare le necessarie infrastrutture in tempi e costi differenti dai nostri.

Stare intelligentemente in Europa potrebbe essere anche l’occasione per imparare dagli altri quello che gli altri sanno fare meglio da tempo. O no?

(a cura della Redazione)

Print Friendly, PDF & Email