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APOCRIFA – Verità eventuale

Anche la vicenda, allo stato in corso con esiti imprevedibili, dell’orientale coronavirus si è svolta in conformità dell’usato schema tradizionale che richiama alla memoria vestigia di una triplice dinamica dialettica (tesi, antitesi, sintesi) all’opera in modalità sempre analoghe: affermazione/negazione, ammissione, superamento (per quanto possibile, si capisce, e comunque tenendosi a carico cocci e scorie).

Dal primo caso, individuato all’inizio di dicembre, fino a oltre metà gennaio le autorità cinesi hanno mantenuto, nelle relazioni formali con i terzi (quali fossero le conoscenze all’interno dell’organizzazione non è noto e potrebbe rimanere verosimilmente celato), la versione paternalisticamente rassicurante di una malattia misteriosa di causa ignota caratterizzata comunque solo da una contenuta manciata di contagi essendone escluso il contagio fra le persone.

Il riferimento al mistero e all’ignoranza delle sue cause non era invero, di per sé, particolarmente felice né tranquillizzante, specie nel linguaggio burocratico che, nella sua attenzione alla notizia guidata, è simile in tutto il mondo, ma tant’è: era quello che passava il convento di una delle due più potenti economie terrene e bisognava accontentarsi.

Se non che la globalizzazione è tale in ogni senso e non solo in quello che i soggetti scelgono caso per caso per fare i propri interessi e così, sotto la spinta sia delle considerazioni scientifiche di epidemiologi inglesi sia del fatto che gli USA, per non sapere né leggere né scrivere, avevano comunque iniziato a mettere sotto controllo i voli galeotti ecco che dalla tesi negazionista si è passati in poche ore all’antitesi contraria: abbandonato al proprio destino lo scenario un po’ limitato del mercato del pesce o di altri strani animali semi-commestibili (sebbene sulla stampa siano apparsi servizi circa le condizioni dei locali mercati di generi alimentari, con bambini razzolanti a piedi scalzi nei rifiuti organici e altro ancora, tali da giustificare l’origine di qualsivoglia esiziale calamità, non escluse l’antenata peste nera o la morte rossa) e dopo la comunicazione di un locale medico -già convolto nel 2002 con la Sars- che si era viceversa anche verificato il (temuto) passaggio tra esseri umani -mentre i contagiati già risultavano cresciuti e c’erano anche i primi decessi- la sequenza diviene sempre più rapida e, culminando il livello politico di vertice nell’intervento urbi et orbi del Presidente a favore e in nome di prevenzione e controllo onde preservare la salute e la sicurezza della popolazione, si procede finalmente con la messa in quarantena di una fetta di popolazione vasta quasi quanto quella italiana, la costruzione hic et nunc alle porte della città di Wuhan di un ospedale da campo per mille posti letto e altre draconiane misure.

Con effetto domino altre città dello Hubei chiudono aeroporti e ferrovie, ma il virus polmonare non attende né si conforma alle resipiscenze burocratico-amministrative dato che nel frattempo, come è stato stimato, solo dall’aeroporto di Wuhan nell’arco di sei-sette settimane sono partite migliaia e migliaia (trentamila) di persone al giorno fra le quali è del tutto attendibile (incubazione da cinque a dieci giorni) ci fossero anche dei contagiati.
Che infatti iniziano a essere rilevati qua e là per il mondo, Italia compresa, mentre le cifre (di decessi e di contagi) aumentano e la OMS parla di emergenza globale paventando, fra l’altro, la debolezza di numerosi Paesi sotto il profilo sanitario e quindi la loro attendibile inefficacia a un’opera di serio contrasto dell’epidemia.
In Italia la notizia che è scattata (sintomatico, questo verbo lampeggiante) la stretta sui controlli (medici nei porti e stop ai visti) viene data dalla stampa nel giorno di domenica 2 febbraio.
Come scatto, non è male.

A ben vedere il processo in sé non è, per esempio, diverso -a parte ovviamente i contenuti specifici- da quello da poco (per ora fortunatamente) concluso nel duello fra Iran e Usa con danni e perdite addebitate dagli uni e puntualmente negate dagli altri in cui, fra l’altro, anche l’abbattimento dell’aereo di linea è stato anzitutto negato sdegnosamente e respinto al pari di una calunnia velenosa, quindi ammesso solo allorché le prove esterne erano tali e tante da non poter essere più negate e quindi caricato sulla responsabilità singola di uno sconosciuto combattente il quale, costretto a decidere in una manciata di secondi fra il sì e il no ha scelto male.
Pazienza per quelli che non c’entravano niente: anche in questo caso cocci e scorie sono e rimangono loro e delle rispettive famiglie.

E se si risale nel tempo è agevole accertare che lo schema è sempre lo stesso: affermazione/negazione (si confida che la bugia tenga), ammissione (se la bugia non tiene), superamento (à la guerre comme à la guerre: cocci e scorie a carico, possibilmente, di chi non c’entra).

In effetti il denominatore comune che rende uguali gli esseri umani è, più di ogni altra cosa, la menzogna -comprensiva beninteso dell’omissione e della reticenza- la quale si palesa come lo strumento più rapido, agile e funzionale (in termini di efficacia et efficienza) nella gestione delle cose sia private sia, a maggior ragione, pubbliche vuoi nazionali vuoi internazionali.
A questo proposito, data l’importanza strategica dell’argomento, è stato perfino predisposto il mantello semantico della ragion di stato idoneo a coprire contemporaneamente sia il soggetto sia la bugia (Dante, Cantica III, XXI, 133-134: Cuopron d’i manti loro i palafreni, sì che due bestie van sott’ una pelle).

Ricordate, fra le tante, la ragnatela di bugie con la messinscena del segretario di Stato USA al Consiglio di Sicurezza dell’ONU e l’esibizione della fialetta contenente un grammo di antrace (a fronte di 100-500 tonnellate di armi chimiche assertivamente possedute dall’Irak)?
Alcuni di quei figuri hanno molti anni dopo (la società social ha, fra l’altro, scoperto anche il pentimento peloso) ammesso l’illecito, ma quando la maggior parte delle persone non si ricordava più neanche chi essi fossero: la memoria sbiadisce in fretta e questa è la ricetta più indicata perché l’uomo rimanga bestia.

Dovrebbe però tenerne conto anche l’ONU, quantomeno per aggiungere un po’ di realismo alle proprie ottimistiche sebbene istituzionalmente ipocrite numerose grida.

Con la menzogna si può costruire una realtà a proprio uso e consumo, laddove per il tramite della verità si sarebbe costretti a confrontarsi, comunque, con dati esterni (chiamiamoli così) dei quali è necessario tenere conto e quindi farsi da questi condizionare.
Che le menzogne, secondo il noto modo di dire, abbiano le gambe corte non è poi neanche del tutto detto e pur questa è una loro facilitante caratteristica: perfino quelle, infatti, che sono prestamente scoperte non producono di solito il danno -quantomeno di reputazione o d’immagine- che gli ingenui o coloro i quali si ostinano a rimanere fuori dal branco si aspetterebbero e questo per due ordini di motivi.

Anzitutto perché -al pari delle bolle di metano prodotte dai microrganismi che allignano nella fanghiglia opaca del fondo degli stagni- crescono, emergono e sfumano in un pantano popolato da altri numerosi bugiardi che a loro volta (e ben lo si comprende) non attribuiscono all’inganno né altrui -né tantomeno proprio- valore negativo alcuno oltre all’uso strumentale, se agibile, per una polemica contingente (l’accusa di mentire, in politica, non è più neanche una contestazione da degnare di risposta) e poi perché queste bolle di metano, chiamiamole pure così, si susseguono tanto numerose da non lasciare neanche il tempo di essere indagate: ce ne è sempre qualcuna più recente che distrae l’attenzione peraltro ondivaga del popolo dei batraci.
Nel frattempo, e lo si vede nello spazio e nel tempo (chiamiamola storia), il pantano o lo stagno continuano a rimanere tali e i loro chiassosi abitanti si accontentano, necessariamente, dei fuochi fatui.

LMPD

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