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EDITORIALE – Vaniloquenti caleidoscopi di parole

Once upon a time, quando a Milano c’era lo zoo, le voliere emanavano oltre a inconfondibile odore di guano un incessante chiacchericcio che i visitatori, ignari di quanto proferissero loro i volatili poiché dopo l’Eden e Babele nessuno conosce più la lingua della natura, ascoltavano solo distrattamente.

E’ una delle similitudini possibili per questo vaniloquente caleidoscopio di parole (se ciascuna delle quali avesse un valore economico, per quanto vile, si sarebbe risolto il problema del debito pubblico) che, dall’inizio dell’estate, ha costituito la colonna sonora della nostra vita accompagnata dal morbo.

L’itala gente ha caratteristiche tutte sue, alcune delle quali imprevedibili nelle reazioni, che presentano però la costante di essere, comunque, limitate nel tempo: repetita iuvant solo per modo di dire poiché in realtà le ripetizioni, anche di cose positive, ben presto stancano.

Fatte le debite differenze, i primi tempi delle storiche domeniche senza automobili furono prese, dalla maggioranza e prima della caccia ai permessi e agli aggiramenti, come occasione di modifica (temporanea, ma interessante) di comportamenti sedimentati in prospettiva sostanzialmente ludica.

La conformità alle dure regole del confinamento da epidemia, rispettate in proporzioni inattese e tali da stupire quanti, dentro e fuori del Paese, nutrono trancianti pre-giudizi (non sempre ingiustificati) sull’inguaribile propensione alla confusa e anarcoide disobbedienza dei concittadini, aveva contemporaneamente prodotto -in prospettiva di comune tragedia scandita da sterili bollettini di guerra e da giornalieri decessi, dei quali ora i no-tutto negano la realtà- anche uno spirito di resistenza che oltre a superamenti virtuali degli spazi abitativi (musica sui balconi, aperitivi e salotti da una finestra all’altra etc) si concretava, indipendentemente dai DPCM, in code d’attesa stranamente autodisciplinate prima ancora dell’avvento delle mascherine (che non c’erano) e della sconosciuta distanza sociale.

La reazione dignitosa e composta fino, come detto, all’imprevedibilità da parte della maggioranza dei consociati nell’emergenza aveva condotto, prima dell’estate, a risultanze di tutto rispetto sotto il profilo epidemiologico anche in rapporto alla situazione di paesi con i quali si tende regolarmente a operare confronti nemmeno sempre del tutto fondati.

Pervenuti così al risultato di avere -a caro prezzo- contenuto e circoscritto l’epidemia l’equilibrio del consenso consapevole si è rapidamente disattivato in una montante cacofonia politico-pseudoscientifica che ha irresponsabilmente scambiato l’effetto per la causa, errore non ignoto nelle azioni umane, e la débacle si trova ora nella singolare situazione (normalmente) tipica della vittoria: di avere numerosi padri.

I quali persistono a fare danni.

Sullo sfondo psicologico, del tutto comprensibile, ma da prendere con le necessarie pinze, del buio e dello stress dei mesi precedenti le oramai prossime vacanze estive sono state da troppi prese all’insegna dello scampato pericolo e del ‘liberi tutti’ confinando l’attenzione e la prudenza, peraltro di pochi, al ruolo per definizione perdente di Cassandre come le evidenze post-feriali non hanno mancato ben presto di fare emergere senza che chi aveva responsabilità di intervenire per tempo lo facesse se non vaniloquendo.

E la (inconsistente) testa politica, amministrativa e scientifica del Paese ha lasciato fare.

Ma nel chiacchericcio subito montante delle patrie voliere, ove in troppi hanno preso a parlare dicendo tutto e il suo contrario si sono distinte le voci dei cattivi esempi che, secondo abitudine, ricevono sempre più udienza nella comunicazione alla quale portano il loro contributo di disordine e, in fin dei conti, di insicurezza: dai medici che dichiaravano in via di soluzione o addirittura estinto il virus ai politici cui non sembrava vero di poter disporre di elementi di contrasto con gli avversari onde, dopo troppi giorni non belligeranti, smarcare le posizioni a scopo di utilità personale o della propria parte.

Ricordiamo come, finalmente disponibili le mascherine, subito e pur in contrasto con le più avvertite opinioni scientifiche siano emersi teatranti rifiuti sterilmente polemici e ovviamente in compagnia di osannanti seguaci.

Unitamente a una comunicazione, sia diretta sia nei media, bipolare (i contagi aumentano, ma non c’è da preoccuparsi; il sistema sanitario è pronto, ma mancano personale e respiratori; il virus ha ripreso a colpire, ma niente paura etc) che, in tal modo rifuggendo dalla responsabilità, rinuncia alla sua unica funzione legittima: servire a qualcosa.

Ora la situazione è tornata grave mentre il profilo di base dell’emergenza è pur sempre il medesimo: morbo sostanzialmente ancora sconosciuto e sempre privo di cura specifica, vaccini ad hoc in divenire (ma in compenso ritardi sine die anche per i vaccini invernali noti), tempo prezioso perso nelle polemiche di parte e nella disorganizzazione (di cui sono incerti i confini rispetto alla sicura incompetenza e incapacità di troppi soggetti responsabili che nessuno rimuove e che continuano come niente fosse), comunicazione magmatica e perciò causa di confusione e di spaesamento (un nuovo confinamento è escluso, ma lasciato all’ipotesi di qualche esperto fuori dal coro, e si preferisce ora il coprifuoco: c’è sempre una causa di forza maggiore non mai riconoscendo l’efficacia distruttiva della insipienza).

L’unico pre-vaccino, chiamiamolo così, allo stato disponibile è quello trivalente già noto e fa quel poco (o tanto, dato il contesto) che può, ma non certo banale come lo si vorrebbe fare apparire da parte degli ignoranti e delle volpi in servizio permanente: mascherine che proteggono reciprocamente dal respiro infetto (modalità d’elezione, come sembra, per il diffondersi del virus), mantenimento della distanza interpersonale (pendant delle mascherine), lavaggio delle mani (un tempo considerato fin dovere religioso e non è male sia stato, sebbene in un contesto che non avremmo voluto, riscoperto nella civiltà del culto del corpo in cui non tutti sentono il bisogno del sapone dopo essere stati, che so, su un mezzo di trasporto pubblico, a far la spesa, allo happy hour o prima di desinare).

Con buona pace degli sbruffoni, in buona (concesso il beneficio del dubbio) o mala fede, di chi respira motivi abietti o futili, di chi parla senza sapere cosa dice né ascolta, di chi non ha neanche la dignità di vergognarsi e almeno tacere e farsi da parte.

Bisognerà ora nuovamente per forza e per tutto il tempo necessario fare a meno di qualcosa, a cominciare dall’ideologia e dai cattivi maestri per finire con l’happy hour a proposito del quale, oramai scappate dalla stalla tutte le bestie possibili, iniziano a circolare fotografie di tavolini vuoti.

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