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EDITORIALE – Da farne?

Un imprenditore, mio parente acquisito e ormai da anni nella pace del Signore, sapeva fare i conti (ancorché sulla carta del formaggio) senza essere andato alla Bocconi né ricorreva a consulenti aziendali strategici: era però uso valutare preventivamente ogni iniziativa con l’attenzione e la calma (festina lente) della tradizione culturale contadina (nella specie romagnola) da cui proveniva e se la ragionata considerazione dei pro e dei contra volgeva verso il rigetto della prospettata iniziativa la lapidaria sentenza era condensata in una domanda retorica di due parole: Da farne?

In altre parole: cosa ce ne facciamo, alla fin fine, di questa iniziativa, di questa scelta, di questa attività etc?

Da farne? Si avrebbero infatti più criticità e danni che vantaggi: non andiamo a impastoiarci.

Una posizione non dissimile, mutatis mutandis ovviamente, dalla logica evangelica (Lc 14,31-32) che -nelle immaginifiche modalità narrative semitiche- tratteggia la figura di un re il quale, andando in guerra contro un altro re, si siede prima a calcolare se con i soldati a sua disposizione può affrontare il nemico: in caso contrario tratta le condizioni per la pace.

Nella confusione sovrana che circonda le molteplici e frenetiche attività degli uomini, oscurandone sovente le motivazioni (sempre che esistano al di là di scelte ispirate al contingente profitto), il test da farne? troverebbe largo seppur non sempre gradito, ai potenti di turno, utilizzo.

Ma in certi (tanti) casi è pensabile sia del tutto necessario applicarlo, perfino a posteriori (quando non serve più), se non altro per cercare di trarne qualche considerazione valida da adesso in poi.

Gli antichi sapienti, ingannati dal non prevedere cosa sarebbe accaduto dopo di loro (anche e già in riferimento ai loro stessi tempi, beninteso) opinavano che la storia fosse maestra di vita: prova che anche i grandi, talvolta, sbagliano clamorosamente.

Ma tornando a noi ecco tre macro esempi, che denominare tragici è riduttivo, sui quali riflettere almeno per riguardo agli sconfinati lutti che hanno (del tutto inutilmente) lasciato in eredità.

Nato e Italia se ne vanno dall’Afganistan dopo anni di guerra contro Al Qaeda e compagnia, mentre gli americani se ne andranno entro il prossimo settembre. L’intervento militare avvenne a causa degli attentati qaedisti dell’11 settembre 2001 ed è costato agli Alleati oltre 3500 vite (di cui 53 italiane) e cinque o sei volte tanto in feriti e invalidi oltre a un numero imprecisato di miliardi i dollari (per l’Italia otto e mezzo, sembra). Ma trattandosi di una guerra combattuta fra la gente, oltre alla stima dei circa 85.000 ribelli caduti si considerano più di 240.000 persone uccise in operazioni belliche e altre centinaia di migliaia perite per cause indirette. Inoltre donne (3.000 morti e 7.000 feriti) e bambini (7.700 e 18.500) sono state vittime innocenti coinvolte in aggressioni, attentati, attacchi aerei e ordigni esplosivi (mine antiuomo): privati di tutto.

Ora che gli Alleati se ne vanno, dopo l’accordo bilaterale di Trump con i talebani del febbraio 2020, il governo legittimo controlla, secondo la Croce Rossa e altre organizzazioni umanitarie, non oltre un terzo del Paese (in pratica le città di maggiori dimensioni) mentre il resto è sotto il controllo dei talebani o conteso, la povertà è massima e la quantità di produzione dell’oppio raddoppiata rispetto al 2001: le trattative di pace sono in corso, ma contemporaneamente in crescita gli attacchi ai civili. E non per nulla interpreti e collaboratori locali, con le rispettive famiglie, se ne vanno (o cercano di andarsene) con i militari: nulla di nuovo sotto il sole e alla luce di oggi suona empio, irresponsabile e puramente ideologico il dichiarato ottimismo iniziale del presidente G. Bush che superbamente escludeva il ripetersi di un’altra invasione fallita.

Tra l’altro in quel vasto e impossibile territorio ci avevano appena (1989) lasciato le penne i Russi strangolati dalla guerriglia degli studenti coranici armati e sostenuti proprio dagli USA e quindi le insormontabili difficoltà operative che si sarebbero incontrate avrebbero dovuto essere conosciute.

Un altro esempio è la Siria, un Paese ridotto in macerie da dieci anni di guerra civile e con oramai meno della metà dei suoi abitanti ancora sotto il regime di Damasco il quale sopravvive solo per una (favorevole al governo) laida combinazione politica internazionale. Oltre mezzo milione di morti, secondo le stime, a opera delle operazioni siriane, russe e delle milizie armate dall’Iran che sostengono il potere della minoranza alawita sulla popolazione sunnita. E al solito danni incalcolabili, diretti e indiretti, a carico della popolazione civile costretta alla diaspora o allo status di rifugiati o sfollati sine die con una percentuale di povertà intorno al 90% e un’aspettativa di vita ridotta in dieci anni di guerra del 13% per i bambini.

Hanno perfino fatto votare i superstiti per conferire il quarto mandato di sette anni all’attuale presidente il quale -trionfo dell’hybris- ha impudentemente votato (lui che senza i Russi sarebbe da anni finito come Gheddafi) in quella stessa cittadina, iniziale roccaforte dei ribelli, dove le organizzazioni internazionali hanno ragione di ritenere siano stati usati i gas: chi sa chi vince le elezioni e chi sa se ancora qualcuno dubiterà della democrazia il cui significato, per decenni ovunque abusato fino alla farsa e oltre, si è in effetti sciolto confluendo nel suo opposto.

Al termine un solo pensiero (ma la lista, teoricamente, è più lunga d’un serpente) anche ad Hamas e Israele: undici giorni di guerra (la terza dal 2006, anno della presa del potere di Hamas a spese di Fatah nella Striscia) fra le case all’esito della quale tutti hanno dichiarato di avere vinto, salvo coloro che sono morti (e come sempre tanti civili fra cui necessariamente i bambini) e subito i riflettori dell’attenzione internazionale dei media si sono spostati altrove.

Rimane il fatto che questa nuova esplosione di violenza sia stata da Israele motivata con la necessità di indebolire la potenzialità offensiva di Hamas distruggendone capi, basi, materiali bellici e tunnel, mentre da parte di Hamas (che ha lanciato 4.000 missili forniti dall’Iran sulle città israeliane e che, a parere del NYT, ne ha comunque ancora migliaia così come, perso un centinaio di chilometri di tunnel, ne avrebbe ancora e di più) si è ritenuto di avere raggiunto un successo politico-strategico (contro l’internazionalmente riconosciuto Fatah che governa la Cisgiordania) avendo ricevuto appoggio sia dei palestinesi cisgiordani sia degli arabi-israeliani e un’attenzione particolare da parte delle componenti più di sinistra della attuale maggioranza di Biden.

Che poi questa contabilità avvenga sui morti (civili) sembra avere, eticamente parlando, un’importanza molto relativa (anzi serve ad acquisire crediti e non certo da ora) così come la profusione di ingenti risorse in scopi bellici a discapito della promozione di migliori condizioni della popolazione e anche questo serve allo stesso scopo: perpetuare l’instabilità, l’incertezza e l’odio che sono i più efficaci antidoti contro la ‘pace’.

Altro misero termine che, al pari di ‘democrazia’, in troppe parti del mondo è usato nella più irresponsabile mala fede ideologica.

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