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APOCRIFA – Reato d’opinione

Alcuni hanno manifestato interesse a conoscere qualcosa di più in materia di reato d’opinione, scivolosa fattispecie penale fatta recentemente tornare alla ribalta dalle discussioni sul DDL n. 2005 (Zan & Zan).
Tematica complessa da affrontare in un breve articolo, ma si può tentare almeno per sommi capi e, come per il precedente intervento, cercando di scrivere sine ira et studio.

Il problema sorge dall’articolo 4 (Pluralismo delle idee e libertà delle scelte) del DDL e da come esso è scritto:

Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti.

La prima osservazione (di metodo, ma anche di merito) riguarda il fatto che ricopiare in una legge ordinaria un principio costituzionale è pleonastico e non aggiunge benefici, ma elementi inutili che poi, nella fase applicativa, a loro volta sono forieri di dubbi e confusione.

Il diritto -per tutti- di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione è già sancito dall’articolo 21 della Costituzione oltre che, ad abundantiam, anche da atti e convenzioni internazionali.
Corollario di quanto precede è che il perimetro dell’oggetto garantito dal diritto di libera manifestazione del pensiero comprende ogni tipo di tematica disponibile all’uomo (teologica, religiosa, etica, morale, filosofica, politica, sociale, economica, scientifica, biologica, medica etc) e quindi, di sicuro, anche quella sessuale.

La seconda (di merito) riguarda il fatto che parificare il compimento di atti discriminatori a quello di atti violenti è, così come scritto, evidentemente errato sotto il profilo della ratio legis (criticità non indifferente dato che la ratio legis o principio ispiratore della legge è anche un importante criterio interpretativo quando la lettera della norma, sovente mal scritta, mette in difficoltà l’interprete) e illegittimo sotto il profilo costituzionale poiché chiunque è libero -e deve rimanere libero- non solo di pensare e di parlare, ma anche di lecitamente realizzare (o quantomeno cercare di farlo) il proprio pensiero nella propria vita reale e all’uopo soccorre, appunto, il contenuto di discriminare (che significa e. g. differenziare, distinguere, selezionare, discernere … in una parola scegliere e quindi, conseguentemente, emarginare o scartare quanto non si intende far proprio).

Tra l’altro non è nemmeno marginale, a maggior ri-prova della confusione con cui si esprime la norma, sintomo della confusione dei legislatori, che lo stesso titolo dell’articolo 4 parifichi al pluralismo delle idee la libertà delle scelte e poi, nel testo, segua la comminatoria a fronte del pericolo di compimento di atti discriminatori tout court fra i quali, viceversa, c’è da differenziare.

Sempre a parte, ovviamente, l’uso della violenza non mai ammessa né in questo caso (ambito sessuale) né in ogni altro, la discriminazione da inibire è quella davanti alla legge, cioè pubblica e di ordine pubblico, già vietata (peraltro con esplicito riferimento anche al sesso) dall’articolo 3 della Costituzione (Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali) e non altra poiché diversamente sarebbe al cittadino inibito di comportarsi nella vita scegliendo secondo le proprie idee e si concreterebbe una pura ipocrisia di Stato: una forma di censura politica alimentata da un’ideologia a senso unico che usa parole mistificatrici onde presentare in apparenza una realtà diversa da quella che invece si propone di perseguire.
Procedimento questo ben noto e universalmente utilizzato dai regimi autocratici e illiberali al cui novero la nostra Repubblica, pur afflitta da qualche acciacco, certo non appartiene.

Facciamo allora un passo avanti.
Si è infatti testé toccato un punto molto sensibile a livello costituzionale e istituzionale, anzi il punto: l’apparente ossimoro etico-politico (e giuridico) costituito dal garantire lo Stato, da un lato, il diritto alla libera manifestazione del proprio pensiero e, dall’altro, a contenerne nondimeno al medesimo tempo e in parte l’esplicazione per il tramite di comminatorie di natura penale.

L’equilibrio o (per usare un termine già noto) il discrimine fra libertà costituzionalmente protetta e altri principi o valori del pari e nel medesimo grado costituzionalmente protetti, ma potenzialmente collidenti e conflittuali con la libertà è il nucleo che forma la ratio legis, per l’appunto, del reato d’opinione: il cui bene d’ordine pubblico da tutelare è sostanzialmente la stabilità dei valori fondamentali sui quali si poggia lo Stato medesimo (non per nulla i reati di opinione delineano comportamenti criminosi contro la personalità dello Stato od offesa dell’ordine pubblico, inteso come mantenimento delle condizioni necessarie e sufficienti alla pacifica e sicura convivenza dei cittadini).

Il reato di opinione è un reato di pericolo: vale a dire la sua proibizione è stabilita per intervenire in via preventiva a tutelare il bene oggetto di protezione dal pericolo di nocumento, senza attendere che si produca l’evento del danno.
Pur essendo strutturato come reato di pericolo astratto, per la Corte costituzionale esso è reato di pericolo non astratto, ma concreto in cui giudice valuta -di volta in volta, in base a criteri necessariamente ex ante dato che si agisce in via preventiva- la concreta pericolosità della condotta incriminata in termini di lesione del bene giuridico oggetto di tutela: in altre parole il fatto che la opinione espressa integri, fenomenicamente nel caso specifico (e non teoria), una condotta criminosa idonea a vulnerare il bene giuridico tutelato.
Così, a esempio, nell’istigazione a delinquere e nell’apologia di reato (articolo 414 c. p., delitti contro l’ordine pubblico) non è punibile la semplice manifestazione di pensiero in sé, per quanto riprovevole od odiosa essa possa manifestarsi, ma quella che per le sue modalità attuative integri un comportamento concretamente idoneo, nel caso specifico, a provocare la commissione di delitti da parte di terzi (pericolosità concreta).

Va da sé che siffatta valutazione ex ante, detta anche prognosi postuma, possa risultare un processo decisionale estremamente discrezionale in cui la soggettività del giudicante, in particolare se politicizzato o ideologicizzato, confligge o rischia di confliggere in misura più o meno grave con il superiore principio costituzionale e penalistico di determinatezza del reato (articolo 25 Cost. e articolo 1 c. p.).

L’obiettiva incertezza sulla quale si fonda l’equilibrio più sopra accennato fra tutela della libertà di espressione e tutela di altri valori protetti, ma collidenti rappresenta (e non paradossalmente come a prima vista potrebbe pensarsi) sia la forza sia, al contempo, la debolezza della democrazia liberale la quale, a differenza della tirannide, ammette in linea di principio e tutela l’uso delle civiche libertà fino al punto di consentire loro perfino di confliggere con se stessa e i propri principi: ma con il limite e con il discrimine di non oltrepassare il livello di guardia (normativo) minimo, necessario e sufficiente a mantenere efficace ed efficiente la struttura istituzionale di se stessa, cioè della medesima democrazia liberale.
E’ intuitivo che questo livello di guardia non sia sempre uguale, ma condizionato, nel corso del tempo, dal comune sentire dei concittadini di uno stesso Paese, dalla loro maturità civico-sociale, dalle loro tradizioni e dalle credenze (o non credenze) religiose e filosofiche o meta-filosofiche maggiormente generalizzate: in una parola dalla loro cultura (personale e collettiva) onde per il tramite di un potere legislativo liberamente e consapevolmente eletto (noi siamo talmente abituati a usufruire di libere elezioni che non di rado le sprechiamo mandando per futili motivi in Parlamento, organo fondamentale, persone incapaci e quindi inutili) consegnano essi allo Stato e all’autorità giudiziaria il potere di difendere la libera repubblica e per l’effetto sé medesimi.

E quindi il livello di guardia anzidetto, a differenza di quelle norme religiose o morali che hanno radice divina o metafisica, può modificarsi mediante evoluzione o involuzione a seconda che la cultura civica generale progredisca o regredisca e a seconda della direzione intrapresa.
Non è infatti assolutamente detto che ogni fenomenico progredire nel tempo sia sempre e necessariamente latore solo di positività, come la nascita e la morte delle civiltà e dei loro cicli dimostra ampiamente.

Ma sono processi per definizione di lenta progressione, in quanto coinvolgono fattori meta-giuridici o, meglio ancora, prae-giuridici e devono quindi, peraltro nel comune interesse della collettività, essere accompagnati da prudente e quanto più possibilmente saggia considerazione in particolare da coloro che rivestono, a ogni livello, sia forme di munus publicum sia, in particolare, la pubblica funzione legislativa.

Norme, come l’articolo 4 del DDL in parola, che aggiungono incertezza a equilibri già molto sensibili per la collettività e, allo stesso tempo, caratterizzate altresì da dubbi e difficoltà non marginali che aumentano il rischio di ampliare la sfera del reato d’opinione, anche indipendentemente forse dalle intenzioni dei legislatori (o quantomeno di taluni di essi), rischiano di peggiorare lo scenario e non di porre rimedio, ove esistono, agli iati socio-culturali che male si prestano, per definizione ed esperienza, al trattamento giudiziario penale anziché a quello social-preventivo sempre poggiante, comunque, sulla reciprocità sia dei limiti sia del rispetto.

La libertà intesa a senso unico è mera ideologia atta ad approfondire il dissidio spostandolo su piani diversi, ma non mai a risolverlo.

LMPD

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