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APOCRIFA – Partecipazione, astensionismo e antifascismo

Passato lo spirare delle elezioni amministrative sul campo di frumentone, si sono raddrizzati gli steli che hanno prevalso e rimasti stesi a terra quelli che hanno perso.

I programmi di lavoro erano, e sono, praticamente simili ovunque e, in adesione alla semplificazione in auge, sì/no, corrispondono di fatto a grandi temi enunciati a livello talmente generico (e contemporaneamente privi di percorsi attuativi, comprese le risorse necessarie) sui quali è facile trovarsi d’accordo: ripresa post Covid, digitalizzazione, transizione, lavoro, casa, partecipazione (anche in rapporto al sovrabbondare delle astensioni), periferie…

La sinistra sventola altresì l’antifascismo sul quale la destra ha minori o più confuse certezze ideologiche sebbene il capo di FI si allarghi prontamente a dichiarare che per i suoi allievi garantisce lui.

I prossimi mesi, peraltro già iniziati, mostreranno nei fatti come e quante fra le diverse declaratorie elettorali, sovente non distinguibili da slogan, passeranno alla fase realizzativa evitando così che  rapida smemoratezza vada a coprirle nascondendole alla vista.

Due argomenti sono nondimeno già suscettibili di qualche osservazione: la partecipazione (e il suo rovescio che è l’astensionismo) e l’antifascismo.

L’astensionismo è stato dichiarato, da parte di coloro che hanno perso, il vero vincitore della (propria) mancata elezione con un ragionamento auto-assolutorio non dissimile da colui il quale vedendo la polvere e non essendo capace di toglierla la nasconde sotto al tappeto.

Che si cerchi di andare indenne da responsabilità da parte di chi si era candidato ad assumere responsabilità pubblica già la dice lunga sulla statura civica in genere dei personaggi e certo non aiuta a rimpiangere la loro prematura fuoriuscita dall’agone: se non sono sfiorati dal dubbio (maieutico) che il problema siano stati principalmente loro e non tanto gli sfiduciati elettori i quali non hanno percepito lo stimolo di trascinarsi ai seggi per votarli neanche turandosi le nari e indossando lenti affumicate dovrebbero andare, la prossima volta (se ci sarà), a ripetizione di democrazia: perché coloro che sono stati eletti qualcuno a loro favore l’hanno bene trovato.

Il tèma dell’astensione/partecipazione dell’elettorato è quindi ben più serio della goffa ricerca di una scusa contingente perché corrisponde a un effettivo processo di disaffezione in crescendo dagli anni ’80 in poi causato attendibilmente dall’ingravescente sconforto dei cittadini davanti allo spettacolo di dubbio gusto offerto dalla politica, dalla sua inettitudine e doppiezza e dalla sempre più scarsa confidenza circa il valore del voto.

Il fatto che a votare il sindaco di Milano, unica città italiana di prospettive europee, sia stato (a prescindere dal successo al primo turno) il 47% degli aventi diritto è, più che un campanello d’allarme, la sirena dell’ambulanza.

La mancanza di partecipazione alla cosa pubblica per difetto di speranza che serva a raddrizzarne in qualche modo i faticosi destini è un segno di reale pericolo per la democrazia sul quale non tanto varrebbe sproloquiare quanto piuttosto ragionare in termini operativi e principiare a porvi rimedio.

Anche perché, al di là del risultato contingente, una sacca di oltre il 50% di cittadini che si è immersa silenziosamente è comunque pericolosa e destabilizzante anche per lo stesso vincitore.

Analogamente l’antifascismo, i picchi formali del quale ciclicamente corrispondono a reazioni verso comportamenti devianti di gruppi fascisti di nome e di fatto -come la recente marcia romana contro la sede sindacale e il pronto soccorso fuori uscita da una protesta di piazza- è argomento troppo serio per lasciarlo circoscritto a polemiche strumentali.

Fascismo, e contemporaneamente antifascismo, significano almeno due scenari con la medesima radice, anche terminologica, ma di diverso confine pratico.

Il primo si identifica, storicamente, con il sistema politico liberticida che ha governato l’Italia per il ventennio ed è terminato con la duplice guerra, mondiale e civile, la cui rigenerazione è costituzionalmente inibita, mentre il secondo è divenuto, anche metaforicamente, un modo per descrivere una specifica situazione socio-culturale, anche contingente e parziale, di prevaricazione e repressione di libertà altrui.

Altrove nel mondo la medesima situazione è descritta (o descrivibile) con altre parole e va da sé che non sia, il fascismo, appannaggio unicamente del nostro Paese, ma di ogni diverso luogo ove, in pratica, si realizzino condizioni critiche e altamente limitative per la democrazia-libertà, indipendentemente da come, caso per caso, siano nominate o in quale modo i singoli regimi si autodefiniscano, sovente infatti con profusione (umoristica, se non fosse tragica per le popolazioni soggette) dell’aggettivo ‘democratico’ e con una specifica enfasi comunicativa circa il proprio essere ‘antifascisti’ contestando agli altri di essere fascisti.

Si comprende come la terminologia possa condurre fuori strada e, con l’ausilio di ideologia e ignoranza (a parte la mala fede), non far vedere il fascismo (o comunque si intenda denominare la mancanza di democrazie-libertà) nelle autocrazie e nei regimi tirannici di ogni colore che si auto proclamano democratici.

Per il primo scenario sovviene la legge già esistente in ossequio alla XII disposizione finale della Costituzione, per la quale vige il divieto di riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista (legge n. 645/1952) e si procede, come peraltro già avvenuto due volte negli anni ’70, allo scioglimento d’autorità della formazione o partito che con i suoi comportamenti realizzi le condizioni preventivo-repressive della legge.

E in questo quadro andrebbe gestita la recente querelle sulla attuale formazione neo fascista oggetto da più parti di proposta di scioglimento.
E’ stato infatti rilevato anche dal presidente della Repubblica che non sono le violente devianze di piazza, che pur lo Stato deve attentamente impedire ed efficacemente reprimere in quanto illegali, a mettere in pericolo democrazia e libertà: “Il turbamento è stato forte, la preoccupazione no. Si è trattato infatti di fenomeni limitati che hanno suscitato una fortissima reazione dell’opinione pubblica” ove essa reazione costituisce appunto l’antifascismo diffuso negli anticorpi repubblicani.

Per il secondo scenario sovvengono (devono sovvenire) una specifica cultura e una consapevolezza determinata a impedire, quindi con scelte e comportamenti coerenti, che si creino condizioni per l’attecchire di metodi ‘fascisti’ nella società.

Antifascismo (democrazia-libertà) non è solo ripudiare il razzismo (che di per sé è, tra l’altro, un’idiozia già sul piano storico e scientifico) e l’antisemitismo (che è delinquenza politica), ma anche essere persuasi che tutti sono uguali (sotto il profilo etico-sociale la meritocrazia non rileva) e tutti nascono liberi e che liberi, unicamente regolati e protetti da leggi equanimi e non discriminanti alla cui stesura hanno avuto possibilità di partecipare, devono poter vivere.

La democrazia è un contenitore di libertà individuali e pubbliche: culto, pensiero, giustizia, istruzione, lavoro, attività, accettazione delle minoranze, ripudio della prevaricazione e della violenza, convivenza nell’ambito di leggi (regole e limiti reciproci) uguali per tutti etc etc.
Mentre l’attuale andazzo, per esempio, di chiudere la bocca all’avversario con la violenza verbale o di escluderlo dal confronto con la tracotanza è un atteggiamento tipicamente fascista che emerge peraltro dai comportamenti di soggetti dichiaratamente antifascisti.

E perché l’antifascismo è un tèma serio e d’importanza vitale per la sopravvivenza (democrazia e libertà) della Repubblica?

Anzitutto perché, come già detto, esso corrisponde (deve corrispondere) a una determinata cultura e consapevolezza non fungibili né delegabile alla piazza o alla polemica.

E poi perché in questo nostro Paese che dal 25 aprile in poi ha visto gli antifascisti brulicare ovunque, taluni fondanti principi del binomio democrazia-libertà sembra non abbiano ancora ben attecchito.

A parte, e non certo ultimo, il particolare di non riconoscere né accettare, per definizione, la presenza dell’uomo della provvidenza: l’uomo solo al comando va bene nelle gare di ciclismo e al timone di un naviglio, ma non al governo né dello Stato né dei partiti.

Si può quindi immaginare che i numerosi sindaci, a esempio, che hanno fatto dell’antifascismo un loro (facile) slogan elettorale lavoreranno con attenzione non tanto al materiale scioglimento di formazioni politiche neofasciste, che non è compito loro, ma costituzionalmente del governo della Repubblica, quanto piuttosto a realizzare nelle proprie amministrazioni i presupposti operativi e i comportamenti coerenti per promuovere nei fatti più che nelle parole la partecipazione degli elettori e gli anticorpi repubblicani.

LMPD

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