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APOCRIFA – Signore e Signori

Il politicamente corretto, bigotto e tentacolare satiro moderno che aspira a introdurre nella società la melassa dell’equivalenza politico-culturale è un caso non banale che mostra come iniziali buone intenzioni possano deviare lastricando le vie verso l’inferno (tanto per rimanere in tema) specialmente se lasciate in gestione a minoranze organizzate e aggressive.

Come altri (più validi) aspetti del modo di pensare occidentale esso ebbe origine nella sinistra progressista degli Stati Uniti degli Anni ‘30 dello scorso secolo e si prefiggeva sostanzialmente lo scopo di intervenire sul piano dell’ingiustizia e del pregiudizio razzistico che ancora dilaniavano una società la quale pur era transitata in una guerra civile lunga e feroce per abolire la schiavitù, ma non aveva ancora raggiunto un equilibrio accettabile.

Così progressivamente e non certo in modo indolore si pervenne negli USA, durante gli Anni ’80, a sostituire la terminologia spregiativa fino ad allora in uso per gli ex schiavi americani a suo tempo deportati dai Paesi d’origine (nigger, black) con Afro-americani, uso rattamente scimmiottato anche in Italia per convenienza politica di matrice sessantottina che strumentalmente fingeva di dimenticare sia la derivazione latina della parola italiana ‘negro’ sia l’assenza di qualsivoglia significato spregiativo nel nostro modo di essere e di intendere, radicalmente diverso da Oltreoceano, come ampiamente dimostrato anche da scrittori e giornalisti contemporanei al di sopra di ogni sospetto.

Così il politicamente corretto è, all’origine, un atteggiamento culturale di rispetto verso tutto il prossimo in genere, con attenzione a non portare offesa a nessuno per motivi inerenti il suo stato psico-fisico, quale esso sia, e le sue convinzioni o il suo pensiero.

In realtà si presenta come un atteggiamento sostanzialmente non dissimile da una reale (vale a dire non formale o ipocrita) buona educazione o urbanità aperte verso il prossimo per accoglierlo, comprenderlo e (perché no) anche sopportarlo -in auspicabile regime di reciprocità- senza pregiudizi o preclusioni.

Per chi si ricorda qualcosa del cristianesimo, che è la base morale della civilizzazione europea, lo scenario sopra descritto è qualcosa di già noto sebbene nei fatti e nella vita di ogni giorno non sempre facile da realizzare come da annunciare.

Anzi, volendo appena approfondire un poco di più l’argomento, ecco che ci si ritrova ben presto davanti alla ‘regola aurea’, appannaggio non solo di Gesù, ma anche di (tanti) saggi e maestri dell’antichità a loro volta più noti nella teoria che seguiti nella prassi: non fare ad altri quello che non vuoi facciano a te o (in positivo e il senso non cambia) tratta il prossimo tuo come vorresti esso tratti te stesso.

Ma la legge per la quale le idee non possono essere espresse se non con parole è, da sempre, una potente fonte di ispirazione cui la libertà, condizione presente solo nella razza umana, consente a ciascuno di abbeverare se stesso e di abbeverare l’eventuale suo gregge piccolo o grande, presente o futuro.

La manipolazione del linguaggio che consegue alla ‘scoperta’ della potenza delle parole e al loro consapevole utilizzo strumentale a scopo socio-politico non è, del pari, una novità come provato dalle molteplici esperienze dei regimi totalitari o autocratici passati e presenti (e non mettiamo limiti alla Provvidenza: presumibilmente anche futuri).

E tralasciamone -per necessaria neutralità di indagine- i risultati: è infatti abbastanza diffuso che nei regimi privi di libertà l’umorismo non sia ben visto e che, a maggior ragione, difetti il senso del ridicolo.

Anche il politicamente corretto, a motivo delle sue agili potenzialità operative e in particolare della rapidità di approccio della declaratoria in confronto alla costruzione della sostanza, si involve progressivamente da quando viene adottato come metodo di critica radicale dipinta di vago, ma attraente liberalismo da parte di minoranze ben sveglie e capaci di agire coerentemente con i propri propositi nel perimetro di maggioranze disattente o pigramente disinteressate.

La manipolazione del linguaggio non dispiace, infatti, ai distratti o a chi tende soprattutto alla propria (contingente) tranquillità poiché nascondere la polvere sotto ai tappeti sembra offrire una accettabile risoluzione del problema della pulizia e sollevare quindi dall’onere di operare personalmente o di collaborare in qualche modo.

Discorrere asetticamente di ‘danni collaterali’ (strage di civili, quando per esempio i razzi intelligenti a precisione chirurgica diventano stupidi) o di ‘neutralizzazione’ (uccisione) delle forze nemiche fa passare in secondo e più distante oltre che tranquillizzante piano che di là, appena poco più in là, ci sono guerre che non finiscono mai.

Ancora più vicino: ‘ottimizzare le dimensioni dell’azienda’ e ‘ricollocare o ridistribuire le risorse umane’ suona meglio e preoccupa meno rispetto al più rozzo licenziare così come ‘subito disponibile al lavoro’ per indicare il disoccupato, mentre se i ‘poveri’ in canna di evangelica memoria sono denominati ‘non abbienti’ e gli utilissimi, indispensabili moderni schiavi del terzo (e quarto) mondo, dove si delocalizzano le imprese, come popoli ‘in via di sviluppo’ il risultato è quasi pari a pascersi dei progressi realizzati etichettando i padroni con i caporali come imprenditori agricoli, gli infermieri come operatori sanitari, gli invalidi e i minorati come diversamente abili…

Tutt’altro esercizio sarebbe, ovviamente, andare a vedere quando, come e quanto la sostanza delle cose si sia (o meno) modificata in proporzione al progresso semantico.

Sulla manipolazione del linguaggio (e sulla pelle altrui) politici, amministratori, padroni e sindacalisti di bassa lega hanno fatto le loro dubbie fortune.

Ma dalla manipolazione del linguaggio si passa, in uno stadio più avanzato dell’involuzione, alla manipolazione della realtà e qui il politicamente corretto dispiega il massimo della sua capacità al contempo anestetica e sovversiva: se tutte le culture, i comportamenti, le idee, i modi di lavorare, i gusti etc sono uguali, manca lo spazio logico, ancor prima che pratico, per valutare, criticare, esprimere opinioni chiare (e non miagolate), migliorare etc perché ciò offenderebbe o non terrebbe nella giusta considerazione chi la pensa diversamente.

Ma il relativismo, vale a dire la base teorica di questo modo di ragionare, è un paradosso che, da un lato, deprezza i singoli valori e la loro comparabilità mentre, dall’altro, aspira a trovare il succedaneo, ma per definizione sempre incerto, equilibrio -costituito dal non offendere nessuno- in rapporto alla società come in quel dato momento storico essa appare costituita.

Tutto è, appunto, talmente relativo che alla medesima domanda può essere data contemporaneamente risposta diversa in rapporto alla composizione del gruppo sociale che contingentemente se ne occupa.

Così mentre la coscienza sociale in genere tende ad assopirsi e lasciar fare, talune minoranze sono invece attive nello sfruttamento, in particolare, della propria (oggettiva) condizione di minoranza.

Gli obiettivi principalmente presi di mira dal politicamente corretto sono le componenti della civiltà occidentale tutt’altro che perfette, come in genere le cose degli uomini peraltro sotto ogni cielo, ma un’acritica sostituzione di un elemento con un altro, aprioristicamente preferito in quanto contrario, non conduce a riforme sibbene a mera perdita di radici, religione, cultura e identità non rimpiazzate da un nuovo che, in realtà, non esiste al di fuori della ipocrisia e del conformismo i quali nuovi non sono, ma solo risorgono ogni volta dalle proprie ceneri come l’araba fenice.

Gli ideali egualitari e progressisti sono visti di buon occhio anche da talune burocrazie europee di Bruxelles le quali, come noto, hanno recentemente provato a redigere anche una sorta di linea guida (nelle Università americane, culle del pragmatismo scientifico, componevano appositi speech codes come ausilio per evitare espressioni offensive o insultanti) utile ad ammodernare il linguaggio dell’inclusione (a parte come sono nei fatti trattati i tanti che rischiano la vita per essere inclusi): Union of Equality – European Commission Guidelines for Inclusive Communication (30 pagine).

Non andrebbero più bene, a esempio, i termini ‘Signore e Signori’, forse per incapacità semantica a ricomprendere chi non si sente né l’uno né l’altra, da sostituire con ‘Cari colleghi, Cari partecipanti’ (pag. 14) come sarebbero da bandire termini riferibili alla religione tradizionale (Natale, Maria etc) perché non si deve ‘dare per scontato che tutti siano cristiani’ e perché ‘non tutti celebrano le festività cristiane e non tutti i cristiani le celebrano nelle stesse date’. Da qui il suggerimento di ‘essere sensibili rispetto al fatto che esistono persone con differenti tradizioni religiose o calendari’ e un’esemplificazione convincente: ‘meglio dire Malika e Julio sono una coppia internazionale invece che Maria e Giovanni sono una coppia internazionale’ (pag. 19).

Etc, etc: la lettura del documento, di cui è quantomeno dubbia la funzione ‘a uso solo interno degli Uffici’ frettolosamente dichiarata all’atto del suo ritiro con la motivazione di non avere colto l’obiettivo (vedi infatti il suo Foreword, oltre alla forma editoriale e iconografica del fascicolo) è comunque istruttiva poiché rende l’idea di dove arrivino le esagerazioni non adeguatamente sostenute dalla ragione e da una sufficiente cultura.

Davanti però a sforzi intellettuali di tale fatta e a tali sorprendenti scoperte viene spontaneo augurare agli stressati burocrati di sostituire la sfortunata e logorroica precedente linea guida con una di due semplici righe (‘Non dovendosi dare per scontato che tutti siano neanche mediamente intelligenti, si suggerisce -se possibile- di riprendere gradualmente l’uso del buon senso e della buona educazione’) e di cercarsi magari un lavoro proporzionato agli stipendi che percepiscono.

LMPD

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