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APOCRIFA – Contro la guerra

E’ il titolo dell’ultimo scritto di Francesco papa di cui è stata recentemente pubblicata sulla stampa l’introduzione: un’articolata analisi contro la guerra e a favore della pace sulla quale è difficile non convenire -indipendentemente dal singolo (o comune) credo religioso oppure dal non credo- in quanto poggiante su elementi e considerazioni obiettive: numerose guerre in atto (l’invasione dell’Ucraina è l’ultima in ordine cronologico e la più prossima territorialmente) che provocano ovunque divampino le medesime conseguenze tragiche: morte (in particolare fra le popolazioni civili innocenti), distruzione, carestia, migrazione forzata, terrorismo politico, deportazione e infiniti affanni.

Fino a giungere a qualificare il conflitto oltre che come pazzia anche come sacrilegio poiché, al pari di un cancro che si autoalimenta fagocitando tutto, fa scempio di ciò che è più prezioso sulla nostra terra, la vita umana, l’innocenza dei più piccoli, la bellezza del creato.

È evidente che Francesco abbia totale ragione e continui ad averla anche quando sottolinea che la guerra non solo non risolve, avendo come scopo e conseguenza la distruzione, ma altresì condiziona criticamente la pace di cui l’uomo ha necessità così come i polmoni dell’ossigeno.

Costruire la pace corrisponde a fermare la guerra nel cuore, per impedire che arrivi al fronte e fermare la guerra nel cuore corrisponde a estirpare dal cuore l’odio, prima che sia troppo tardi, attraverso una politica lungimirante in grado di costruire una convivenza non basata sulla deterrenza e sulle armi (per le quali si spendono poco meno di 2.000 miliardi di dollari all’anno), ma sul dialogo, sulla diplomazia e sul rispetto reciproco.

L’adesione spirituale, in verità non difficile, ma istintivamente naturale e spontanea alla francescana allocuzione porta dritto e subito al come agire, quindi, di conseguenza e ci si ritrova allora nel mezzo del riarso e assetato deserto circondati dalle forze del male che mai, come in questo caso, lungi dall’essere teoriche o indefinite sono viceversa presenti nella loro dirompente compattezza materiale.

Vediamo gli ostacoli.

Non esiste una forma di giustizia a livello internazionale al di fuori, allo stato e per chi sa quanto tempo ancora, dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che però vede la propria capacità di reale intervento (senza cui la giustizia si riduce a velleità etica) condizionata dalle iniziative e decisioni dei grandi fra di loro contrapposti.

Il Consiglio di sicurezza delle N. U. infatti, massimo organo cui è attribuita la responsabilità di mantenere la pace nel mondo e che ha, per l’effetto, il monopolio dell’uso della forza (ius ad bellum), è composto da 15 Stati membri dei quali 10 eletti a rotazione biennale e 5 permanenti (Francia, Regno Unito, Usa, Russia e Cina) cui l’accordo di Yalta del 1945 (Churchill, Roosevelt, Stalin) ha conferito il potere di veto, vale a dire il potere d’impedire, tramite opposizione del (singolo) voto contrario, l’adozione di qualsivoglia delibera da parte del Consiglio di sicurezza medesimo.

Con il che condizionandone e bloccandone all’origine la potenziale capacità operativa.

E’ evidente come la conflittualità politico-istituzionale esistente e perdurante fra i vincitori della seconda guerra mondiale produca, di fatto e di diritto, l’impossibilità del Consiglio ad adempiere alla sua funzione principale che è, come detto, il mantenimento della pace (Capitolo VI, Soluzione delle controversie, e Capitolo VII, Azioni rispetto alle minacce e violazioni della pace e agli atti di aggressione, della Carta costitutiva), allorché l’evento teoricamente da contenere o governare tocchi interessi di un membro permanente o, come nel caso specifico, sia direttamente da lui prodotto o dipendente.

Nella specie la violazione della pace e gli atti di aggressione sono finalizzati a cancellare un Paese confinante internazionalmente riconosciuto o quantomeno a largamente modificarne i confini radendone al suolo città abitate e depredandolo in una prospettiva non lontana da quella delle invasioni barbariche i cui attori, peraltro, non sedevano in consessi internazionali da loro medesimi frequentati con supponenza e tracotante doppiezza.

Non esiste un’autorità morale super partes e accettata che possa intervenire con la voce della ragione per indurre al dialogo e alla diplomazia quei capi politici i quali, sragionando, si volgono al peggio e spingono i popoli in tradotte senza ritorno.

Non esiste un’autorità medica super partes accettata che possa intervenire a livello psicologico e psichiatrico per mettere in condizioni di non nuocere quei capi politici che, consapevolmente o meno, si volgono alla follia e all’hybris.

Non esiste un’alternativa efficace al tenere pronto lo schioppo per difendersi, se possibile, dall’aggressione omicida dei pazzi morali i quali scalano il potere nei rispettivi Paesi e con ogni mezzo vi rimangono tendenzialmente a vita aumentando in tragica misura non tanto la possibilità quanto la probabilità di accadimento del superior stabat lupus (il lupo beveva al ruscello stando a monte rispetto all’agnello, ma nondimeno gli muoveva accusa, per poterlo assalire, di intorbidargli l’acqua).

Anche se il tenere pronto lo schioppo costa una quantità oscena di denaro (risorsa comunque limitata, anche per i ladri) che sarebbe molto più utile, in ogni senso, riservare al progresso e al bene, materiale e morale, dei popoli tutti.

Non esiste più, o noi non siamo in grado di vederla e accoglierla, la colonna di nube e di fuoco che andava a porsi fra il campo degli Egiziani e il campo di Israele, tenebrosa per gli uni mentre per gli altri illuminava la notte.

Onde a fronte dell’incombenza e dell’opera indefessa delle forze del male cresce il pensiero e il sospetto e la convinzione che il mysterium iniquitatis (mistero d’iniquità) non sia solo una parte della realtà da valutare in chiave divina e religiosa, ma anche e parallelamente in chiave laica e politica, sulla falsariga peraltro di quanto già nitidamente insegnato dal Maestro (Date dunque le cose di Cesare a Cesare e le cose di Dio a Dio).

Non si prospetta salvezza o salvazione al di fuori di un ritorno – anche se progressivo, ma reale e possibilmente spinto, pur se non lo si riconosca, dallo Spirito- alla fede reciproca e all’unione di intenti verso le quali procederanno, nel deserto, coloro che preferiranno la buona volontà alla tracotanza, il rispetto alla violenza, il diritto naturale all’assassinio.

In fondo (molto in fondo) la creatura umana è fatta a somiglianza di Dio, anche se il più delle volte viceversa il suo agire richiama più precisamente l’anti-Dio e la speranza che qualcuno o più cambino avviso è sempre lecita.

Metanoèo è il verbo che usa il Vangelo per descrivere in sintesi il primo invito della predicazione di Gesù e significa ripensarci, pentirsi, convertirsi, rimpiangere qualcosa di cui si avverte la nostalgia.

Anche la pace perduta.

LMPD

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