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APOCRIFA – Comunicare e informare

Comunicare significa fare sapere mentre informare non è esattamente un sinonimo, sebbene i due termini siano sovente usati nello stesso significato, ma è (o almeno dovrebbe essere) qualcosa in più dato che la sua derivazione dal latino significa dare forma e quindi istruire e quindi comprende certamente anche il dare notizia, ma non solo: deve o dovrebbe, l’informare, avere un po’ di valore per il suo destinatario aumentandone in qualche misura le conoscenze e questo valore si costituisce ed emerge se il destinatario ha un minimo di fiducia nella fonte.

Diversamente si passa da una voce all’altra o da un rumore all’altro, più o meno creduto in rapporto alla singola propensione del momento e, in particolare, a cosa si vuole o preferisce sentire dire, ma poi subito lo si dimentica.

Allo spirare di un lungo periodo caratterizzato da grande confusione comunicativa che ha accompagnato la funesta vicenda del Covid-19, pandemia peraltro ancora in corso sebbene per fortuna con esiti letali minori, ora contingentemente schermata dagli ancora peggiori argomenti conseguiti all’aggressione russa contro l’Ucraina, l’Unione Nazionale Medico Scientifica di Informazione (UNAMSI), associazione dei giornalisti e pubblicisti che scrivono in tema di sanità, salute e ricerca, e l’università La Sapienza, Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive, hanno prodotto un documento per focalizzare l’attenzione di chi si occupa sui media di argomenti medico scientifici verso l’informazione corretta e sottolinearne l’importanza allo scopo di conferire ai contenuti mediatici, almeno quelli più seri, quel tanto di valore aggiunto che li distingua dal consueto bailamme.

Secondo una tradizione ricorrente il documento (modernamente: position paper) è stato anche indicato come decalogo, sebbene forse un poco più prolisso rispetto al modello originale (il primo, con l’apprezzamento dimostrato dagli antichi verso la sintesi, suggerita anche dalla fatica oltre che dal costo del medium sul quale scrivere, era addirittura limitato a dieci parole), ma dalle considerazioni comprensibili e fondate.

Si potrebbe iniziare dal fondo, dal n. 10, che di fatto è l’ossatura di ogni comunicazione, scritta od orale: mentre la forma verbale più usata nella scienza è (correttamente dato che le certezze, quando ci sono, vengono dopo) il condizionale, nel giornalismo impera l’indicativo presente: quasi sempre tutto ‘è’ già, ma è un ‘essere’ esile e accade anche che domani non se ne parli più o avvenga diversamente.

L’informazione non deve invece celare l’incertezza tipica della scienza, sempre in itinere e in ricerca.

Nn. 1 e 2: l’informazione veicolata sui media può contribuire in maniera rilevante (e questo è bene ove essa sia fondata) a modificare, influenzandoli, i comportamenti dei lettori onde la necessità di adottare sia un elevato standard qualitativo in genere sia una coerenza con le conoscenze scientifiche effettive allo scopo di evitare quella che dalla OMS è stata considerata al pari di una seconda emergenza: l’infodemia.

Infodemic, composto da information ed epidemic, indica una quantità incontrollata di informazioni, notizie e falsità miscelate al punto da non riuscire a districare il vero dal non vero che la facilità della comunicazione di massa unita alla mala fede e all’idiozia di molti conduce a divenire un virus letale per l’intelligenza e privo, sia oggi sia domani, di qualsiasi forma di vaccino.

L’infodemia non esiste solo fra i numerosi soggetti senza arte né parte alla ricerca di un’effimera gloria mediatica (sic transit gloria horae), ma anche fra coloro i quali, pur di apparire a loro volta, dimenticano responsabilità professionali e deontologiche: qualcuno ricorderà chi diceva scomparsa oramai la pandemia già alla prima estate, chi negava la mascherina, chi sbeffeggiava il vaccino e i molteplici esperti che, non riconoscendo l’ignoranza (lecita) della scienza e la (colpevole) propria, dicevano l’uno il contrario dell’altro.

Nn. 3 e 4: fondamentale che i professionisti della informazione scientifica aumentino le proprie conoscenze e la propria cultura medico scientifica e, allo scopo, intrattengano relazioni serie e concrete con il mondo accademico e della ricerca.

Nn. 5 e 6: da quanto sopra, proprio per le ripercussioni che i temi trattati di salute, medicina e sanità possono avere sulla cittadinanza, i giornalisti specializzati devono alzare l’asticella della deontologia e non rinunciare mai a una stringente verifica e rigorosa valutazione delle fonti.

Inoltre basarsi più sui dati che sulla narrazione delle storie personali (storytelling) per descrivere patologie o trattamenti medici.

Lo storytelling, di derivazione anglosassone, rende forse più agevole e formalmente brillante la comunicazione, ma si riferisce a storie o eventi personali e se non adeguatamente suffragato da dati ed evidenze, anche statistiche, corre il rischio della superficialità o del fraintendimento.

Nn. 7, 8 e 9: la verità scientifica è una prospettiva, sempre in fieri, e ha tempi normalmente diversi e più lunghi rispetto all’informazione, dei quali si deve tenere conto: la pubblicazione di una importante scoperta pur sulla rivista internazionale anche più prestigiosa non necessariamente coincide con il termine della vicenda o con la verità definitiva. Ogni cosa va inquadrata nella sua dimensione e nel contesto che rispecchia il procedere del progresso scientifico: per successive approssimazioni e non per assoluti.

Da qui, per coerenza, consegue l’invocato rigore nella verifica delle fonti, delle evidenze e delle opinioni.

L’effetto becero-spettacolare del talk-show -che contrappone personaggi noti e graditi al grande pubblico o presunti ricercatori “indipendenti” a scienziati che operano nelle università e nelle istituzioni (e quindi “dipendenti” e quindi nell’usuale logica contestativa a priori meno affidabili)- non si addice alla scienza perché mette sullo stesso piano opinioni ed evidenze scientifiche, nel caso anche non esaurienti come si vorrebbe, e genera necessariamente in chi assiste confusione e sfiducia.

È dovere del giornalista, senza censurare le opinioni “fuori dal coro”, distinguere, e far percepire come distinti, il dato dalla opinione. E non da ultimo richiedere sempre e comunicare la verifica delle affermazioni sulla base delle evidenze scientifiche.

La considerazione forse principale che emerge dall’analisi del decalogo, cui è razionalmente non difficile aderire e quindi auspicarne la maggior realizzazione possibile nel pubblico e privato interesse, risiede nel fatto di essere un po’ controintuitivo in una attività, come quella mediatica, che è in particolare volta a richiamare l’attenzione e a invitare alla lettura o all’ascolto o alla partecipazione ancorché solo televisiva: è (o sarebbe) in realtà un pubblico assai maturo culturalmente e diverso da quello che si bea nei talk show quello disposto ad accettare dichiarazioni socratiche di non sapere o ipotesi di ricerche in corso al posto di consolanti bufale (anche se queste cambiano poi a ogni piè sospinto) e va anche in controtendenza rispetto al panem et circenses della medialità di massa: risse, polemiche, insulti, apparenze, ideologie.

A parte il fatto che, e. g., i giornali sono andati avanti per due anni con 10/15 pagine di Covid-19 quotidiane e che se avessero scelto di pubblicare solo argomenti fondati e meno sciocchezze (comprese le incomprensibili interviste a pretesi luminari di oggi e di domani) non si sa come avrebbero reagito i rispettivi editori.

Ma se non proprio da tutto il contesto giornalistico in genere, quantomeno da quella sua (peraltro non estesa) parte che si dedica alla informazione medico e scientifica una elevazione di qualità e di metodo, a sua volta in progressione come la scienza medica, è lecito sperare che sbocci.

LMPD

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