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L’EDITORIALE – Scenari di luglio

Mentre che la calura di luglio, giorno dopo giorno, compie il suo corso e affoca città e campagne qua e là desolandole senza apparente rimedio il pensiero si volge in memoria e torna ai tempi passati, quando le vacanze erano di norma più brevi, non c’era ancora il turismo di massa atto a spostare (ante pandemia et guerra, ma sta riprendendo) moltitudini umane lungo e attraverso i percorsi del mondo e, in particolare, ci si sorbiva stoicamente il caldo, che in estate non manca mai, senza l’aggravante moderna di sapere che una parte di questa fornace non è proprio conforme a natura, ma indotta anche da sempre più perniciosi cambiamenti climatici in atto.

A mitigazione dei quali (CO2, metano, buchi nell’ozono etc), piuttosto che azioni e fatti, scorrono fiumi di previsioni e proclami e altalenanti programmi i quali progressivamente sostituiscono, ma invero non con gli stessi risultati, i fiumi sempre più in secca.

Anche la secca del grande (per noi) fiume, il Po, appare all’evidenza ben diversa se valutata quale condizione contingente di un ciclo che si confidava naturalmente mobile (e allora si facevano perfino le ricerche storiche sui livelli minimi del passato come, viceversa, per le gonfie piene invernali) o angosciante tassello di un contesto, il riscaldamento globale, volto a un lento, ma nemmeno tanto, inarrestabile peggioramento.

Chi accresce il sapere aumenta il dolore è scritto ab antiquo già nel Qohelet e il concetto, ripreso da numerosi saggi fra i quali Giordano Bruno, ronza da sempre, quale più o meno molesto avvertimento subliminale, nelle orecchie o nelle coscienze di ancora ben più numerose persone: lo scivolo della civiltà antropizzata sul piano inclinato del riscaldamento globale non è iniziato ieri, ma -come ora accertano gli scienziati i quali considerano sia il futuro sia il passato,- da molto tempo: la differenza è che prima non se ne aveva coscienza e gli esperti e i giornali, in tempo d’estate solitamente a loro volta in secca, riempivano pagine senza sospettare cosa ci fosse dietro.

Adesso invece lo sappiamo e il caldo appare più minaccioso, così come la secca dei fiumi che faticano a scendere al mare.

Anche la politica, parliamo di quella nazionale, segue il suo macilento corso o sentiero e l’Italia, quella parte che ogni tanto ci pensa, si sta scoprendo drogata e in stato di dipendenza e confida di non dover affrontare anche la sindrome di astinenza.

Ai due governi condotti dall’avvocato degli Italiani (giugno 2018- febbraio 2021), l’uno succeduto all’altro con significative modifiche anche cromatiche della coalizione, ma ben poca efficacia/efficienza operativa è fortunatamente subentrato (e si è vista l’importanza che può assumere, nell’emergenza, poter contare su di un vero Presidente della Repubblica onde bene agirono, una tantum in maggioranza concordi, i padri coscritti a evitare irresponsabili svarioni in merito), in questo buio periodo di storia -basti ricordare l’emergenza pandemica e il disastro economico- il governo di unità nazionale o di salute pubblica del signor Mario Draghi che, in rapporto principalmente alla worlwide sua riconosciuta statura unita a competenza, ha ridato credibilità e rispetto al Paese a livello internazionale, governato concretamente la definizione del PNRR (che poi andrà realizzato), lavorato -con poca italica propensione a preferire le azioni ai proclami- alle innumerevoli criticità presenti a livello interno ed esterno.

E nella navigazione già in corso attraverso mar sì crudele si sono poi presentati altri gorghi, simili a maelstrom e degni dell’incubo di E. A. Poe, come l’aggressione della Russia all’Ucraina e la ulteriore crisi economica causata dalla guerra (carenza energetica, alimentare, inflazione etc).
L’Italia si è ora abituata ad avere il governo (non ‘un’ governo) e a essere rispettata e considerata nelle sedi internazionali, ma ovviamente neanche Mr. Draghi ha la bacchetta magica che forse sarebbe necessaria in questo mondo (paesano o straniero) che tende a funzionare a rovescio, spinto da rematori operanti per lo più a casaccio e contemporaneamente mordentisi a vicenda in un urlio ininterrotto e per chi fosse amante dell’orrido basti l’esercizio spirituale (o di fantascienza o da thriller di serie B) di immaginare non Draghi sibbene taluni capataz o cacicchi di prima a rappresentare e condurre il Paese negli attuali frangenti.

Che poi sono gli stessi i quali stanno ora sia al governo sia, al contempo, alla saltellante opposizione di fatto secondo lungimiranti scelte di bassa cucina – come dice la bella canzone di Jannacci: un occhio alla ragazza e … fretta, fibbie, lacci … un occhio alla lambretta, l’orecchio a quei rintocchi …– e che prima o poi, come le mosche, ritornano sul piatto.

E non per nulla ora sia il primo ministro sia il governo, pur continuando ad avere un indice di gradimento importante (rispettivamente 48% e 40%), in particolare tenuto conto del presente scenario, hanno subìto un’erosione dall’iniziale consenso il cui tasso è riferibile a grillini e leghisti che mal sopportano l’oscuramento dei rispettivi profili.

Infatti cercano in tutti i modi di fare movimento (a parte le elezioni che molti minacciano, ma che non vogliono perché sarà possibile qualche spiacevole sorpresa) senza avere né capito né imparato niente e hanno anche incontri con il Primo ministro, mini summit ad personam, la valutazione dei contenuti dei quali, stando almeno a quanto riferito, non è sempre lineare: Le urgenze che abbiamo posto non sono urgenze che richiedono una pronta risposta, sembra per esempio avere commentato l’avvocato degli Italiani a proposito della sua recente richiesta (ad usum populi) di cambio di passo e di discontinuità.

Parole, nel caso specifico, puntualmente smentite dal suo ringhiante gruppo che, invece, preme per uscire dal governo provocandone la fine anticipata senza riguardo per l’emergenza in corso e per le ulteriori imprevedibili (oltre a quelle già prevedibili) conseguenze.

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