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L’EDITORIALE – Once upon a time

Molti e molti anni or sono, Once upon a time, in un’aula silenziosa dell’Università, un loquace professore di diritto processuale penale e brillante criminologo illustrava agli studenti le più comuni e tipiche figure di agenti dolosi, di coloro cioè le cui azioni integrano volontariamente fattispecie criminose, e in questa funerea galleria di tipi ce ne era una che, in particolare, suscitava fra i giovani stupore e anche ilarità.

Si trattava di colui il quale, pur sorpreso in obiettiva e certa flagranza di reato, anzitutto negava di essere lui l’agente (Assolutamente no, non sono stato io, non ero io) e poi, palesandosi mortalmente offeso a causa della contestazione rivoltagli, minacciava vendetta e ritorsioni oltre a cercare di trascendere, se ne aveva la materiale possibilità, anche a vie di fatto.

Fra i più laidi di costoro, non pochi, che trovavansi in tale brulicante girone di psico-patologia forense si segnalava colui che in totale spregio alla ragione e al senso comune (qualsivoglia cosa s’intenda per ciò) pretendeva altresì di avere ragione negando, oltre all’evidenza, anche i fatti e la loro collocazione nello spazio e nel tempo.

Fra gli ascoltatori di allora l’ilarità originava, da un lato, dall’inesperienza di vita che il già prossimo tramonto dell’età più bella avrebbe a breve guarito (e si sa come taluni farmaci curino bensì la malattia oggetto di intervento, ma altre ne causino) e, dall’altro, dalla somiglianza macchiettistica con scenette alla Walter Chiari, grande cabarettista e comico, raccontate al di là di ogni verosimiglianza proprio al preciso scopo di divertire la platea oltre a tutti i limiti.

Recenti cronache riportate dai media sono state prese in considerazione da tanti lettori solo perché l’uguaglianza in tutte le principali fonti escludeva la costruzione di uno scoop ad arte e il primo d’aprile è ancora distante nella apparentemente lenta ruota di mesi, giorni e clessidre.

Onde si è palesata la indiscutibile et autorevole presenza -nella sopra indicata categoria- di russi e cinesi per i quali non s’intende invero qui compilare un libello d’accusa sul piano etico, giacché tutti gli Stati più o meno sorretti dalla propria particolare ‘ragione’, non dissimile da quella largamente maggioritaria del principe del mondo, hanno l’inveterato uso di vivere di menzogna e d’inganno tradendo e sporcando gli eventi a proprio uso e consumo, ma anzi tributare loro un motivato riconoscimento.

Riconoscimento ufficiale e di sostanza non tanto alle rispettive facce di bronzo (la corrispondente locuzione in milanese suonerebbe un tantino più realistica) quanto all’assenza totale di faccia, di quella parte anatomica cioè che nell’animale umano, a differenza degli altri animali, contribuisce a rendere possibile nel bene e nel male la distinzione interpersonale pur fra le moltitudini.

Gli storici del futuro, ammesso che ci siano e abbiano (anche) voglia di registrare queste vicende di infimo valore, non guarderanno a costoro in modo diverso da noi quando ci troviamo di fronte a quei busti imperiali della tarda classicità, facce tutte senza espressione connotate nella uguaglianza da occhi bianchi e senza sguardo: esseri senza faccia, quindi, e lunga teoria di degenerati che si uccidevano senza posa fra loro (e magari si fossero limitati a questo) per arrivare al potere pro tempore.

Il capo russo prende occasione dall’ottantesimo anniversario della battaglia di Stalingrado per vestire trasognato panni e baffi sovietici e dopo avere stigmatizzato il rinnovarsi della minaccia nazista (i carri armati germanici con i noti emblemi a forma di croce) e gemellato con una inaspettata qual dose di verità -né ci si immagina se o in quale modo, nella foia propagandistica, se ne sia reso conto- l’invasione criminale di Hitler in Unione Sovietica nel 1941 con la non meno criminale sua in Ucraina dello scorso anno, promette vittorie nella novella guerra patriottica a salvezza della follia del (suo) regime.

Tutti infatti nel mondo, grazie alla odierna diffusa disponibilità di avanzate tecniche di trasmissione di dati e notizie -che un tempo difettavano per cui ci si doveva accontentare dei comunicati ufficialmente menzogneri- sono perfettamente a conoscenza che è stata l’Ucraina a invadere proditoriamente la Russia e che da un anno si combatte all’interno del sacro suolo russo per scongiurare la soluzione finale perseguita dagli odierni nazisti, Ucraina e alleati occidentali, contro la Russia non diversamente da quella di Hitler conto gli ebrei.

Da parte loro i cinesi, che usano talvolta, in ispecie quando minacciano, esprimersi (anche) con frasario chiaro a dispetto di espressioni facciali impassibili e non decifrabili, hanno raggiunto livelli macchiettistici non facili o disponibili a tutti.

Alla scoperta del loro pallone d’alta quota, casualmente sul territorio degli USA, prima sostengono trattarsi di un marchingegno meteo sfuggito alla loro previsione (è infatti, il pallone, sospinto dal vento che -lo conferma autorevolmente anche il Vangelo- spira da dove non si sa e spinge dove vuole lui) e poi, quando gli osservati glielo tirano giù, ne pretendono la restituzione, sebbene necessariamente a rate, e minacciano e si riservano azioni di rappresaglia contro l’azione giudicata irresponsabile.

Tutti sanno che costoro, i grandi e i loro lacchè, si scrutano a vicenda (la famiglia dei curiosi in campo altrui è numerosa) dall’alto dei cieli e quindi tirino giù a loro volta un aereo spia  agli americani (così fanno pari) i quali, peraltro, non rinunciano a metterci as usual del loro e ora comunicano che già in passato ne volavano altri, sempre made in China, di questi palloni malandri, ma lo dicono solo adesso: avranno pure le loro ragioni.

Nel frattempo abbattono ancora due o tre altri oggetti non identificati (figli di ignoti dato che nessuno ne lamenta la sorte) i quali svolazzano sulla testa del Nord America.

Intanto quelli dell’intelligence frugano nel relitto del pallone aerostatico e chi sa che non avvenga loro di reperire anche, qua e là, tracce di tecnologie avanzate USA prestate di soppiatto allo storico antagonista in nome del business is business.

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