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L’APPROFONDIMENTO – Metaverso

Sempre più spesso sentiamo parlare di metaverso: in tutto questo chiacchiericcio, potrebbe essere sfuggita la notizia che nel 2022 uno studente universitario italiano è stato il primo laureato nel metaverso.

Andando a controllare i fatti, la notizia è meno preoccupante di come potrebbe sembrare a prima vista, perché si è trattato di una semplice estensione delle sedute di laurea alle quali ci ha abituato la pandemia COVID-19 nel periodo della didattica a distanza, sia che fosse in forma esclusiva o in forma ibrida (parte in presenza e parte a distanza).

In quel periodo ho avuto più volte occasione di essere presidente di commissione di laurea o relatore di tesi e ho potuto verificare che – in situazioni di emergenza – è possibile far concludere agli studenti il loro percorso universitario con mezzi di fortuna, quale appunto la didattica a distanza.

Nel caso della laurea di Edoardo Di Pietro, studente appassionato di tecnologia e metaverso, la discussione della tesi è avvenuta sia in presenza all’Università di Torino (per un piccolo gruppo di partecipanti), sia sulla piattaforma di streaming scelta dall’Università.

In più, per quanto riguarda il metaverso, il laureando ha “arredato” per l’occasione un auditorium virtuale dove sono entrati amici, parenti e qualche curioso che non avevano potuto prendere parte all’evento in presenza a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia.

Quindi nulla di sostanzialmente nuovo. Anzi, probabilmente la laurea nel metaverso ha offerto ai partecipanti un’esperienza migliore rispetto alle piattaforme abitualmente usate per la didattica a distanza, grazie alla possibilità di allestire spazi virtuali personalizzati.

Piuttosto, il motivo di riflessione è dato dal rischio che queste modalità tecnologiche, adottate quando la situazione sanitaria lo esigeva, possano persistere – magari in forma più attraente – anche dopo la fine dell’emergenza.

Questa non sembra una buona scelta, visto che alcuni studi hanno dimostrato come la didattica a distanza non riesca a fornire ai docenti e agli studenti lo stesso ambiente arricchito che caratterizza le lezioni in presenza.

Per un animale ipersociale come homo sapiens, la possibilità di leggere le espressioni dei volti degli studenti fornisce ai docenti una guida efficace nel modulare il loro messaggio didattico, con il fine di evitare la noia, nemica numero uno dell’apprendimento. In aggiunta, le interazioni tra studenti e docenti (ma anche quelle che gli studenti hanno tra di loro) prima, durante e dopo la lezione possono avere ricadute importanti sul grado di recepimento della materia studiata.

L’introduzione massiccia della didattica a distanza durante il COVID-19, viene adesso utilizzata come “traino” dalle università telematiche e – dispiace dirlo – anche dalle università tradizionali che hanno nostalgia dei vantaggi logistici a breve termine per docenti e studenti.

L’idea di base è che la didattica a distanza può offrire un’alternativa vantaggiosa rispetto ai più faticosi e costosi percorsi universitari in frequenza. Questa tesi viene sostenuta – un po’ pretestuosamente – focalizzandosi in particolare sulle esigenze degli studenti lavoratori (con le loro limitate risorse di tempo) e degli studenti fuori sede (che con lo studio da remoto possono restare a casa).

Esiste però il dubbio che trasformare il provvisorio (legato all’emergenza) in definitivo (in nome dell’efficienza) possa costituire un grave errore.

Considerato infatti che i nostri studenti universitari non vivono – se non in qualche fortunata eccezione – l’esperienza comunitaria del campus, che all’estero consente di integrare in modo fondamentale la formazione accademica, arrivare al punto di confinarli nella solitudine delle loro stanzette di liceali, senza interazioni sociali significative per tutto il periodo degli studi universitari, rischia di inibire le loro potenzialità e di trasformarli in utilizzatori del “bonus psicologo”.

Davide Caramella

 

 

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