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APOCRIFA – Chi era costei?

‘Analisi del colore finalizzata alla valorizzazione dell’aspetto estetico di una persona a partire dalle sue caratteristiche cromatiche (tonalità dell’incarnato, colore degli occhi e dei capelli)’ è la stringata e chiara risposta che l’Accademia della Crusca fornisce al distratto -che si pone la manzoniana domanda- per delineare l’armocromia, parola arrotante evasa dal bagaglio tecnico degli specialisti e divenuta di pubblica discussione da quando la giovane segretaria di un importante partito politico ha recentemente comunicato di farne consumo a proprio uso (salvo poi auspicare che si ponga attenzione più alla sua politica che al suo abbigliamento).

La teoria armocromatica, precisa la Crusca, è usata perlopiù nell’ambito della consulenza d’immagine, della moda e della cosmetica e mira a ricercare armonia tra i colori dell’abbigliamento di una persona (ma anche, a esempio, del trucco) e le caratteristiche cromatiche della stessa persona, da carnagione e pelle al colore dei capelli e degli occhi.

Secondo l’armocromia ognuno rientra (ovviamente se gli interessa farne uso) in una categoria associabile ai colori tipici di una delle quattro stagioni − primavera, estate, autunno, inverno – le quali sono generalmente suddivise anche in sottogruppi (caldo, freddo, profondo, brillante…).

E a ogni stagione e sottogruppo è abbinata una tavolozza di colori da utilizzare nell’abbigliamento e nel trucco onde l’unione e la coesistenza tra i colori della tavolozza e l’incarnato della persona creerebbe un’armonia cromatica in grado di esaltarne le caratteristiche estetiche.

Il termine, abbastanza facilmente interpretabile in quanto costituito da due parole (armonia, che significa anche accordo, e cromia) non è nemmeno la solita copiatura di parola anglosassone (nella specie maggiormente puntigliosa: personal color analysis), ma deriva direttamente dal greco e pare sia emerso in quel di Hollywood in concomitanza (peraltro comprensibile se ci si ricorda gli effetti esagerati del Technicolor) con l’uso delle pellicole a colori.

Ma la sostanza del busìllis, indipendentemente da come la si chiama, era già chiara a livello industriale ben prima del cinema dato che viene fatta risalire al chimico francese Michel Eugène Chevreul nominato nel 1824 direttore della tintura presso la Manifattura dei Gobelin a Parigi.

A causa di lamentele sulla mancanza di coerenza nei colori della tintura, Chevreul intui’ che il problema non fosse chimico, ma visivo e approfondì quindi gli aspetti della miscelazione ottica dei colori pervenendo a pubblicare nel 1839 un libro che divenne fondamentale e fece scuola in merito: The Laws of Contrast of Colour.

Ed era ancora più chiara, se così si può dire, a livello artistico poiché non esiste valido pittore il quale non sia stato anche e prima di tutto, onde servirsene ai fini cromatici della propria opera, quantomeno un buon conoscitore della teoria dei colori, teoria oggetto di trattazioni ad hoc fra cui, e. g., quelle di Leonardo e di Goethe.

Ma tornando alla armocromia quale moderno supporto alla persona nella sua vita pubblica (è intuitivo che chi conduca vita riservata la consideri con maggior distacco) essa costituisce una delle varie fasi di aiuto e sostegno prestati all’immagine e all’apparenza di coloro che operano sul palcoscenico, a qualsivoglia livello, al pari di altre fasi con scopi reciprocamente collegati: il modo di porsi, di comportarsi, di parlare in pubblico, la forma degli occhiali etc.

La consulenza professionale è sempre all’erta e pronta a ritagliarsi nuove nicchie operative in particolare nelle direzioni previamente indicate e promosse dalla moda, dalla (mobile) opinione comune originata nei social, dal voler mostrare di avere raggiunto un certo livello di gusto, di cultura, di ricchezza o di potere (status symbol), dalla ricerca di omologazione con esempi ritenuti efficaci e quindi utilmente copiabili.

In poche parole ci si muove nel campo dell’immagine, dell’ostentazione e dell’apparenza il cui valore oggettivo è, di necessità, variabile fino alla volatilità e la cui etica sottomessa per definizione alle scelte soggettive del singolo soggetto agente.

Le apparenze non solo ingannano, come noto a chiunque abbia un minimo di criterio, ma non di rado sono usate in sostituzione dei fatti i quali sovente, ripetutamente annunciati fino alla noia, più mai non seguono: nel frattempo lo scenario reale è cambiato, così come la fittizia scena teatrale, e domani è un altro giorno: quelli che apparivano prima non appaiono più e al loro posto ce ne sono altri.

Saranno, a loro volta, ombre o anche fatti?

Il tempo non è impietoso, come lamentano tanti delusi, ma semplicemente obiettivo e tutto gli si può tenere nascosto: solo per poco, però.

Certo l’armocromia sembra coinvolgere, quantomeno allo stato, maggiormente le donne rispetto agli uomini e il motivo è intuibile perché alla donna, nell’immaginario collettivo corrente, compete coprire un ruolo anche estetico, seppure inteso nel senso più lato possibile, e la natura non di rado abbisogna di qualche spinta.

Ma siamo quasi sempre lungo un crinale ambiguo e scivoloso che presenta comunque una neanche tanto malcelata trappola e in assenza di una ferma determinazione di soggettivo riferimento ecco la comoda discesa verso l’apparenza e il conseguente consumismo fini a se stessi cui già ben potrebbero essere indirizzate le scarne considerazioni scritte dall’antico autore celatosi sotto il nome di Qohelet: il termine ricorrente, in ebraico antico, è hevel (soffio, vapore, vuoto, vanità).

Sta alla morale soggettiva e alla cultura di chi agisce tenere -se ne ha volontà, consapevolezza e capacità- la rotta e non cadere nella vanità, intesa nel suo duplice significato sia di vuoto sia di frivolezza.

LMPD

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