HomeDialogandoNewsletterApprofondimentoL’APPROFONDIMENTO – Bit e battiti (parte 2)

L’APPROFONDIMENTO – Bit e battiti (parte 2)

 

Colloquio fra un avvocato (Giuseppe Mazzotta) e un medico (Davide Caramella)

(Seconda parte. Per leggere la prima parte, clicca su questo link)

 

GM – Quanto e come ha cambiato l’agire medico lo sviluppo della tecnologia in ambito diagnostico?

DC – La tecnologia impatta in due modi nella diagnosi delle malattie: da un lato fornisce ai medici informazioni precise – e questo è un bene – dall’altro suscita nel paziente un senso di abbandono e vulnerabilità.
Si torna quindi alla necessità di coniugare “bit e battiti” ovvero a un agire medico che non abbia timore di impegnarsi nello spazio compreso tra il paziente e la tecnologia: il paziente non va lasciato solo dentro le apparecchiature, ma va accompagnato e sostenuto con gentilezza nell’affrontare l’esperienza estraniante causata dalla tecnologia.
E il risultato delle indagini che la tecnologia rende possibili va discusso con il paziente in termini appropriati perché vi possa essere la comprensione razionale e l’accettazione emotiva della diagnosi.

GM – Lei ha utilizzato la parola “gentilezza” che si potrebbe definire rivoluzionaria o, meglio, anarchica, visto che scardina radicalmente lo stereotipo di una medicina la cui affidabilità sembrerebbe dover sempre più dipendere dai rumorosi risultati che ottiene (o dalle guarigioni che promette) piuttosto che dalla silente e penetrante modalità con la quale ci si rivolge al paziente. Nel merito, la gentilezza, come lei ci ha ricordato, è l’antidoto al carattere straniante del contatto tra la tecnologia e la propria salute. Dovrei chiederle come si realizza tutto questo ma sono ancora più curioso di sapere, quando questo è avvenuto, che reazione ha avuto l’ambiente intorno, quello più plausibilmente orientato al “rumore”…

DC – A questo proposito, mi torna in mente un passo del monologo del barbiere ebreo nel “Grande dittatore” di Charlie Chaplin: “la scienza ci ha trasformato in cinici; l’abilità ci ha resi duri e cattivi. Pensiamo troppo e sentiamo poco. Più che macchinari, ci serve umanità. Più che abilità, ci serve bontà e gentilezza”.
Con le dovute differenze, il contesto bellico nel quale il barbiere sosia del dittatore pronunciava il suo discorso richiama il contesto della medicina contemporanea. Durante i miei anni di afferenza al Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace dell’Università di Pisa ho posto all’attenzione il tema della pace tra pazienti e medicina, a partire dall’espunzione dal lessico medico di termini bellici come invasione, prima linea, linfociti natural killer, COMMANDO operation e tanti altri di questo sinistro tenore. Ciò potrebbe costituire un primo piccolo passo verso una medicina che riesca a portare pace dentro la persona malata e nel rapporto tra medico e paziente.
Quanto alla reazione dell’ambiente medico, vorrei ricordare una bellissima e sfortunata iniziativa della società scientifica radiologica nordamericana che verso la metà del decennio scorso aveva lanciato la campagna “Radiology cares”, nella quale i colleghi erano invitati a sottoscrivere un patto che richiedeva di mettere i pazienti al primo posto, di utilizzare metodi e strumenti efficaci di comunicazione per favorire i pazienti e aiutarli a prendere decisioni consapevoli e di fornire – ove necessario – spiegazioni pratiche relative ai referti al fine di garantire una buona comprensione reciproca tra medici e pazienti. La reazione dei colleghi statunitensi fu talmente irritata che l’iniziativa venne immediatamente depotenziata in modo drastico e oggi i riferimenti a “Radiology cares” e “Radiology cares pledge” sono praticamente scomparsi. L’irritazione venne motivata più o meno così: “noi radiologi facciamo già tutte queste cose e la sottoscrizione del patto sarebbe un’implicita ammissione di una nostra presunta inadempienza”. Un’argomentazione che può essere comprensibile in campo giuridico o diplomatico, ma che è piuttosto deludente se espressa da medici.

GM – Nella sua storia famigliare si sono spesso incrociati il sapere umanistico e quello scientifico: forse questo è il riverbero dell’unicità stessa del sapere; ci farebbe un esempio di come in lei interagiscono questi due volti della conoscenza?

DC – Il sapere non è più scindibile in queste macrocategorie, che in passato erano giustificate dall’immaturità del metodo sperimentale e dalla mancanza di tecnologie per ottenere dati scientifici affidabili.
Oggi non è più così: anche gli storici dell’arte fanno uso della radiologia e gli archeologi ricorrono alla datazione isotopica dei reperti antichi da loro studiati.
Il nostro attuale problema è che il successo del metodo sperimentale e gli straordinari progressi della scienza e della tecnologia tendono a erodere l’attrattiva e il prestigio dell’approccio umanistico.
Lo vediamo anche in medicina: il medico preferisce leggere i dati elaborati dalle sue complesse apparecchiature, piuttosto che ascoltare il paziente quando fornisce elementi chiave per la diagnosi raccontando la propria storia clinica.
Ma le cose stanno cambiando: oggi la narrazione (in precedenza ritenuta pertinenza esclusiva dell’ambito umanistico) è entrata con autorevolezza anche nella pratica clinica e assistenziale. E questo ha contribuito alla nascita di una nuova disciplina, definita appunto “medicina narrativa”.

GM – Ci racconta un (o più di un) esempio di medicina narrativa?

DC – Un elemento narrativo che ho usato spesso per tranquillizzare i pazienti che vedevo angosciati per la presenza nei loro polmoni di noduli che alle mie analisi risultavano del tutto tranquilli (si tratta di un’evenienza molto frequente) è quello delle “piscine d’aria”.
Alcuni pazienti infatti si fissano con immotivata apprensione sulla parte del referto dove vengono menzionati i noduli fibrotico-cicatriziali e sembrano non riuscire ad accettarne il significato di puri e semplici reperti collaterali privi di significato patologico.
In questi casi facevo una domanda: “sa quanta aria ha respirato durante ogni anno della sua vita?”. Senza attendere la risposta aggiungevo: “una quantità di aria pari a una piscina olimpionica e mezzo”. Questo paragone colpiva i pazienti e li portava a immaginare tutti gli agenti patogeni e inquinanti contenuti nelle “piscine d’aria” respirate per tanti anni e a come tali agenti fossero stati efficacemente gestiti dalle difese organiche dei polmoni con esito – nel tempo – di qualche innocuo nodulo cicatriziale.

GM – Se le dico “Buon Samaritano”, Professore, e le chiedo di adottare uno sguardo narrativo, preferisce pensare alle immagini evocate nella salda struttura del racconto evangelico o alle deformi e incontrollate linee del quadro di Van Gogh?

DC – Il buon samaritano è un uomo – appunto – buono, per il quale il richiamo della solidarietà è più forte del senso di appartenenza al proprio gruppo (anch’esso profondamente radicato nella nostra storia evoluzionistica).
Come accennato, la regola del tit for tat o della reciprocità porta il soggetto a rispondere in modo simmetrico ai comportamenti dei suoi simili: un ringhio in risposta a un ringhio, un atteggiamento amichevole in risposta a un atteggiamento amichevole.
Questi comportamenti sono stati selezionati dall’evoluzione per il loro valore adattativo nelle comunità animali dove è necessario mantenere un ragionevole equilibrio tra egoismo e cooperazione.
Il gesto “scandaloso” del samaritano, illustrato in modo commovente nel quadro di Van Gogh, è tale perché è privo di ogni aspettativa di reciprocità: il samaritano si fa letteralmente carico del ferito, ne accetta la vicinanza estrema (in prossemica si direbbe “intima”) e lo issa con fatica sulla groppa del cavallo, che sembra solo blandamente interessato a questo gesto per lui incomprensibile.
Non a caso in medicina si definisce donatore samaritano colui che offre un proprio organo per il trapianto a un ricevente con il quale non ha legami di consanguineità o di affetto.

GM – Sembrerebbe potersi dire che il donatore samaritano sente in profondità come la salute costituisca il bene comune che spontaneamente condividiamo almeno stando a come questo riesce a coniugarsi con un gesto, quello che ci ha descritto, di un’assoluta gratuità.
Allora insisto citando un ulteriore passo del Vangelo “mutuum date, nihil inde sperantes”, ossia “concedete prestiti senza sperarne nulla”, contenuto nel “Discorso della montagna” (Luca 6, 35). Si può dire che la gratuità che esalta il valore delle azioni è l’opposto del gratis che invece lo neutralizza?
DC – Il Vangelo, insieme ad altri testi di elevata ispirazione, indica come la semplice reciprocità del tit for tat possa essere superata da un comportamento svincolato dal meccanicismo istintuale e dotato delle qualità tipiche che noi associamo all’umanità (non a caso questo vocabolo significa al tempo stesso “natura umana” e “sentimento di solidarietà, di comprensione e di indulgenza verso gli altri”).
La ricerca paleoantropologica conferma che la corteccia prefrontale, evoluta in modo sorprendentemente rapido durante la nostra speciazione, ci ha regalato anche il controllo neurobiologico delle zone più antiche del cervello, dandoci la possibilità di adottare comportamenti generosi fino al punto di essere controproducenti per l’individuo.
Luca invita a porgere l’altra guancia a chi ci percuote e a non ridomandare i nostri beni a chi ce li ha tolti: sono proposte evoluzionisticamente “scandalose”, ma che illustrano l’incredibile ampiezza della gamma dei comportamenti possibili in ciascun individuo della nostra specie (alcuni chiamano “libero arbitrio” questa distintiva caratteristica umana).
Vorrei sottolineare che il nostro cervello non è certo evoluto per consentirci di superare la regola del tit for tat e permetterci di effettuare – se lo vogliamo – la scelta del buon samaritano; infatti è evoluto principalmente per facilitare la nostra sopravvivenza davanti alle sfide poste dall’estrema variabilità del clima che ha caratterizzato l’ultimo recentissimo periodo degli oltre quattro miliardi di anni della storia della Terra.
E così adesso ci troviamo – un po’ per caso – ad avere a disposizione un cervello di straordinarie capacità cognitive ed emozionali, che viene spesso definito come lo strumento più complesso esistente nell’universo conosciuto… non ci resta che cercare di farne un buon uso!

Giuseppe Mazzotta e Davide Caramella

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