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EDITORIALE: Parole e comunicazione

Se le parole servono, la comunicazione è più o meno efficace in rapporto al chiarire o meno le idee. Dipende da come si usano. Sul modo di esporre, per esempio sulla stampa, le molteplici vicende del Califfato incombe una generale abitudine di usare terminologie equivalenti, di per sé non sbagliate, che hanno nondimeno la conseguenza di avvolgere il tema in un politicamente corretto specifico sterilizzante (almeno in parte) concetti di base con il rischio, protraendosi, di diluirne la reale percezione a livello psicologico od emotivo dei soggetti destinatari dell’informazione.

L’acronimo (Isis o Daesh) è sensibilmente meno chiaro ed efficace di Califfato (il califfo era il vicario del profeta, guida politica et spirituale), che evoca comunque -sebbene con tutta l’approssimazione del caso- una lunga epoca storica caratterizzata da guerre di conquista (fino a stringere nella morsa l’Europa) e cerca di non porsi il problema di un potenziale stato che aspira, per motivazioni politiche che certo preoccupano ma che esistono, a costituirsi con la violenza. Il termine arabo jihad, peraltro capace di uno spettro di significati religiosi, è usato verosimilmente per evitare di ricorrere al più crudo, e come tale più comprensibile, guerra (santa o meno che sia). I miliziani del califfo sono qualificati terroristi, kamikaze, delinquenti, fanatici etc forse anche per evitare di dover loro riconoscere, con l’uso, lo status di combattenti: ma non sono (solo) una banda di terroristi. Non parliamo poi dei contorcimenti di matrice religiosa per non urtare la suscettibilità degli islamici moderati, categoria peraltro non di istintiva percezione. Come se negli insiemi degli appartenenti alle altre religioni di massa non ci fossero, del pari, buoni e cattivi, delinquenti e fanatici, opportunisti ed idolatri etc.

Va da sé che un pericolo non lo si contrasta derubricandolo (formalmente) a qualcosa di diverso dalla sua natura, ma contrastandolo nei fatti. E’ comprensibile che si cerchi di sopire la preoccupazione e la paura pubblica, ma è pericoloso, per la consapevolezza del pubblico in primis, farlo più con la forma delle parole che con la sostanza dei comportamenti.

Cambiando registro: è in atto una guerra dichiaratamente promossa da un nuovo soggetto politico, pericoloso perché (palesemente) appoggiato da molti amici, fiancheggiatori e finanziatori che rimangono nell’ombra e nell’ambiguità, che vuole emergere e, per riuscirci, non esita a usare ogni mezzo. Né è un caso che questi abbia un nome coincidente con quello del primo. Se la sua azione politica riuscirà o meno (qualificarla velleitaria è un placebo), dipenderà in particolare dai comportamenti degli assaliti.

Il fatto poi che sia una guerra non tradizionale, almeno come ce la figuriamo in Europa ricordando il nostro passato, non cambia sfortunatamente nulla (la previa intesa, più o meno, su come litigare con le armi non risiede nel DNA dell’uomo, ma è sostanzialmente pattizia: bisogna essere d’accordo in due); così come alcune cause della genesi del tragico tentativo in corso che additano cattive coscienze ed ancor peggiori scelte di non pochi Stati dell’Occidente.

In stretto intreccio con questa guerra rivolta, verosimilmente, contro una civiltà giudicata in esaurimento, ce ne è un’altra, non meno drammatica, religiosa anzitutto fra sunniti e sciiti (noialtri cristiani dovremmo ricordarci che a suo tempo abbiamo vergognosamente avuto esperienze analoghe mescolando il nome del comune Signore con contrapposte mire politiche ed ecclesiastiche) e quindi contro gli infedeli.

Gli archeologi, e non solo, giustamente deprecano la distruzione dei luoghi di culto sciiti da parte dei sunniti del Califfo, ma questa deriva senza eccezioni da una precisa scelta politica: dove giungono rasano: come fanno per i siti antichi e cristiani.

Sarà (è) scelta aberrante e dissennata e contro il patrimonio dell’umanità, ma, essendo questa loro una decisione politica, l’unico vero rimedio, allo stato, è il contrasto sul campo: non farli arrivare. Il resto è chiacchera.

Con un’avvertenza banale, ma necessaria sebbene cruda: gli stati (e i popoli) sono enti collettivi che nascono, si sviluppano e muoiono con qualche (antipatica) analogia con gli umani singoli, sebbene in prospettive temporali più lunghe, e la storia è scritta da chi pro-tempore prevale (per questo non insegna niente, diversamente da quanto ottimisticamente opinavano gli antichi). Se dovesse prevalere il Califfo, l’estensione territoriale del cui stato in fieri (velleitario o no) non è dissimile dall’Italia, anche le principali piazze d’Europa e boulevards sarebbero intestate agli attentatori di Parigi e di Istanbul (solo per citare i più recenti) e nessuno troverebbe nulla da eccepire, anzi, poiché il processo di trasformazione non differisce da quello che caratterizza il delitto politico: prima criminale e delinquente e poi, se la parte vince, eroe (o viceversa).

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