Onorabilità e legge

A fronte dell’inquietante oltre che crescente fenomeno di persone con cariche politiche, sia nazionali sia territoriali, inquisite da parte della magistratura penale ci si trova sempre con, sostanzialmente, la medesima risposta: che deve valere per tutti i cittadini, politici compresi, la presunzione d’innocenza poiché diversamente non più giustizia sarebbe, ma giustizialismo (la così detta giustizia sommaria che conduce al regresso degli indici di civiltà).
La risposta è tecnicamente perfetta in quanto -oltre a tutto- corrispondente al secondo comma dell’articolo 27 della Costituzione, ma non può sottrarsi a due considerazioni peraltro strettamente collegate.
La prima: funzione fondante dell’ordinamento giuridico penale è sia assicurare condizioni essenziali di vita comune per i cittadini, in difetto delle quali la licenza e l’individualità renderebbero difficile se non impossibile la conservazione dell’aggregato sociale, sia (nei limiti in cui questo è realizzabile) indirizzare la coscienza sociale verso finalità di miglioramento della convivenza.
In altre parole, la funzione è garantire la realizzazione di quel ‘minimo etico’ necessario e sufficiente per la civile convivenza dei consociati in un determinato momento storico. Ed inoltre, poiché ci sono anche comportamenti che la comune opinione dei con-cittadini può non reputare contro l’etica (come ad esempio i reati colposi, contravvenzionali o esplicitamente ‘politici’ a fronte dei quali, anzi, a seconda dei punti di vista gli autori sono rei oppure vittime), la funzione è interdire anche determinati altri comportamenti in quanto non conformi agli obiettivi sociali dello Stato.
Se quanto appena esposto è, più o meno, il livello di contenuti che l’ordinamento penale intende attuare è difficile sottrarsi all’invero sgradevole impressione che una risposta burocratica di leggere le risultanze del certificato penale del singolo personaggio pubblico suscita nel cittadino: perché da chi è investito di cariche pubbliche e, quindi, di responsabilità politiche ci si attende -e giustamente- oltre alla forma anche un minimo di sostanza rilevabile nelle pratiche percepite.
E veniamo alla seconda considerazione.
Tralasciando le note criticità sui tempi troppo lunghi della giustizia (e delle eventuali conseguenti prescrizioni dei reati) che certo non aiutano queste riflessioni, sembra un fatto apprezzato da numerosi con-cittadini che il soggetto politico o l’amministratore pubblico, in quanto tali, dovrebbero percepire come un loro preciso onere comportamentale essere (ed essere visti) adeguati, appunto, e conformi alla posizione pubblica.
Per la quale sono, tra l’altro, realisticamente compensati con risorse pubbliche, cioè provenienti dai redditi dei con-cittadini amministrati. Almeno di quelli che sono contribuenti. Il cerchio è tutto qui.
Questo modo di sentire non è certo novità di oggi come non è di oggi la percezione che la legge positiva, anche se puntualmente applicata (avvenimento peraltro non sempre pacifico), può non essere sufficiente a garantire la necessaria onorabilità che la persona pubblica deve viceversa rivestire come condizione per esplicare dignitosamente il suo compito.
La persona pubblica è (oltre che formalmente incaricata) retribuita con denaro pubblico per esplicare una funzione pubblica e questo può avvenire correttamente (al di là dell’eventuale incompetenza o incapacità o inadeguatezza, ma questo è un problema di scelta) solo in condizioni di sua assoluta, effettiva e (anche) riconosciuta neutralità.
Non solo in ordine, evidentemente, alle decisioni tecniche, ma in rapporto altresì allo scenario economico-sociale di riferimento (vantaggi, amicizie, conoscenze, relazioni di lavoro, opportunità di nuovi contatti, affari etc): chiunque comprende agevolmente il reciproco inquinamento che, con danno dell’interesse pubblico e con improprio se non illecito guadagno dell’interesse particolare, tracima da questi vasi se sono comunicanti.
Nel 1734, i’illuminista Montesquieu, al quale gli stati moderni sono debitori di talune non marginali idee, indagando a livello di analisi storica i motivi della grandezza e della decadenza di Roma osservava acutamente come la forza della Repubblica si fondasse sull’austerità dei costumi e sulla costante osservanza di certe usanze, tali da impedire abusi che la legge non aveva previsto o che il magistrato ordinario non poteva punire.
Come anche che vi sono cattivi esempi i quali sono peggio dei delitti e che numerosi stati sono andati in rovina più per violazione dei costumi che delle leggi.
Nessuno vuole perdere tempo a lodare il buon tempo antico, ma un minimo di confronto con quanto accade al di fuori dei confini geografici (ovviamente con Paesi di civiltà analoga alla nostra) è, forse, istruttivo.
O li riteniamo Stati non di (sufficiente) diritto?
Ovviamente -come sempre in ogni ragionamento- ci sono pro e contra ed anche in questo ci sono rischi: uno è l’ipocrisia eccessiva (la calunnia è un venticello …).
Ma almeno, caso per caso (e quindi cercando di scontare a priori errori giudiziari, malafede degli avversari, accanimento di qualche magistrato, destino crudele etc), non accettiamo più che rispondano sempre e soltanto con il mero sventolio della fedina penale.
L’onorabilità (ed i coerenti comportamenti) del politico e del pubblico amministratore in parte coincidono (e s’intende) con la legge penale, ma in parte non piccola vanno ben oltre.

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