APOCRIFA: Moltitudini

In effetti i Paesi europei di strada da percorrere per giungere (oltre all’euro) a realizzare l’unione, e non solo a parlarne, ne hanno davanti ancora molta.

Fino a quando i migranti giungevano solo in Italia la quale, fra i così detti PIGS (garbata formula per indicare, nel giornalismo economico anglosassone, il sud della Comunità: Portogallo, Italia, Grecia, Spagna), è per posizione geografica la più facile da raggiungere -con Lampedusa a un tiro di schioppo dalle coste africane- in molti se ne stavano tranquilli nella loro sostanziale estraneità, salvo poche (sobrie) parole di circostanza, come le condoglianze, protetti com’erano dalla Convenzione di Dublino -entrata in vigore dal 1997 nell’ambito di tutto un altro scenario internazionale- e dalla proverbiale disorganizzazione e lentezza dell’amministrazione del nostro Paese, pronto di cuore e di civiltà, ma sfortunatamente facile da emarginare politicamente.

Ora, viceversa, lo scenario si sta modificando rapidamente a misura che i flussi migratori, spinti dalla necessità di rispondere e di smaltire, verosimilmente, maggior e più impellente domanda, mettono alla prova altre frontiere europee che fanno così esperienza obtorto collo di questa tragedia multilaterale oltre che in crescita.

E le risposte, meglio chiamarle reazioni, che i singoli Stati forniscono, ciascuno pressato da preoccupazioni di casa propria (in sé comprensibili -come lo sono peraltro quelle italiane, per lungo tempo inascoltate e sottovalutate sia fuori sia dentro-), pur non condivisibili nel merito delle non-soluzioni, rimangono comunque allarmanti segnali da considerare con la responsabilità di trovare soluzioni diverse dal filo spinato e dai muri di non lontana memoria (per chi ce l’ha).

Poiché l’apertura del corridoio dalla Grecia attraverso i Balcani, tra l’altro più capiente e quindi più efficiente di quello di Lampedusa, ha scoperto la debolezza e l’impreparazione (per non dire altro), oltre che dei governi dei Paesi principali anche di governi che sono già UE, ma non ancora tutti Schengen, e che comunque riflettono anche corrispondenti difficili crisi ed ostilità in cui penetrano le radici della storia passata. Donde le reciproche accuse, le chiusure, le polemiche e il rimpallo dei profughi.

Che sono ora obiettivamente tantissimi, ma che saranno sempre di più se consideriamo con un minimo di realismo la situazione geo-politica (Medio Oriente ed Africa) dalla quale essi provengono in (legittima peraltro) cerca di salvezza.

Già la divisione concettuale fra chi fugge dalla guerra, da accogliere, e chi fugge dalla miseria, da rimandare, oltre a non essere agevole da applicare nei fatti, con il rischio elevato di ingiustizia e discriminazione che comporta la scelta, non lo è nemmeno in teoria senza toccare un pericoloso corto circuito di coscienza: chi cerca di salvarsi dall’ISIS ha la prelazione, ma chi cerca di non morire di fame?

D’altra parte un’accoglienza non contingente, ma definitiva, di questi flussi biblici postula d’impostare a soluzione reale, e non meramente propagandistica, problemi concreti circa la possibilità di assorbimento sui vari territori di destinazione finale in termini di offerta di lavoro ed integrazione (casa, scuola, assistenza medica, cultura etc) senza le quali condizioni si porrebbe incoscientemente il seme per criticità da vertigine nel medio termine. E’ l’humus nel quale, non per niente, i movimenti xenofobi coltivano ovunque con successo crescente le loro attuali fortune poiché traggono nutrimento dalle (fondate) preoccupazioni che serpeggiano fra le popolazioni le quali non conoscono come, in realtà, intendano poi muoversi UE ed i rispettivi governi. Probabilmente perché, allo stato, dopo anni persi scaricare il problema montante sull’anello più debole (l’Italia) non lo sanno ancora neanche loro.

E per quanto (ancora) non si voglia, anche perché fondatamente si teme quello che uscirebbe scoperchiando il vaso -viste le incapacità et incomprensioni reciprocamente rilevate, ad esempio, per Siria, Libia, ISIS- assumersi vere responsabilità di difesa europea (che comprende anche, ma non solo la migliore gestione possibile del problema umanitario, con quello che consegue) ecco che colpevolmente non esiste (ancora) una seria prospettiva comune per far sì che questi flussi umani non siano costretti a migrare. Intervenendo, cioè, sulle condizioni di causa più che di effetto: la cura della grave malattia è circoscritta al tentativo, nemmeno concorde, di passare al malato un antipiretico.

Purtroppo la cura è, e sarà, pericolosa e costosa per i troppo distratti curanti (nel caso della Libia, l’operazione è riuscita mentre il malato è morto), ma non serve nulla ora recriminare sul comportamento miope e gretto di troppi politici europei che all’insegna del mai tramontato non olet o della reciproca discordia hanno incentivato o protetto regimi o situazioni per meri propositi d’interesse con il risultato che questi ora sono implosi (natura non facit saltus) liberando miriadi di spore venefiche e rapide come schegge.

Il vizio peraltro sembra continuare perché sembra evidente che senza adeguati e condizionanti appoggi politici e più adeguati ancora massicci finanziamenti non si spiegherebbe, ad esempio, la capacità operativa dell’ISIS che non si limita a distruggere pezzi insostituibili del patrimonio culturale dell’umanità (dimostrando nei fatti la propria estraneità sia dalla cultura sia dal concetto, ancorché pur esso scivoloso, di umanità).

E senza considerare l’inversione storico-strategica del fatto in sé: dalla cortina di ferro (come da quella di bambù) non si usciva -se non a rischio effettivo della vita- perché il regime giudicava disdicevole che suoi sudditi-cittadini dimostrassero per fatti concludenti al mondo l’ossimoro della fuga volontaria dal paradiso in terra, mentre da queste si esce e come -peraltro sempre a rischio della vita- perché i rispettivi regimi giudicano un proprio successo (difficile dar loro torto, mettendosi da quella parte) liberarsi da oppositori, bocche inutili e zavorra e, contemporaneamente, destabilizzare i Paesi terzi che considerano nemici.

Nel mezzo, come sempre, chi tiene i piedi in tre scarpe solo perché ha tanti soldi e gli alleati, comprensivi, glielo consentono.

Luca Pedrotti Dell’Acqua

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