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APOCRIFA: Il trasporto fermo

Ad onta dell’essere, il trasporto o la mobilità pubblica delle persone, uno dei parametri più significativi per valutare il grado di civilizzazione di un territorio, almeno fino a quando qualche smart innovazione non lo relegherà nella soffitta dell’ultimo secolo, continua esso a permanere fra i settori più negletti.

Oltre che con minore attrazione politica a motivo del fatto di essere costituito da un groviglio di rovi in cui, al di fuori di parole di circostanza che non si negano mai, anzi, non molti sono propensi a metterci anche le mani, sebbene guantate.

A livello di scenario quadro, sotto il profilo sociale, c’è una legge (la 146 del 1990) deputata a disciplinare il diritto di sciopero (diritto costituzionale a mente dell’art. 40, ma non licenza) che da tempo, secondo il giudizio stesso della preposta Autorità garante, avrebbe dovuto essere modificata e migliorata.

La legge lavora male anche a causa della frammentarietà delle molteplici sigle sindacali, tipica del settore, la quale rimanda al problema non mai risolto della effettiva rappresentanza sindacale (apparendo in conflitto con il più semplice dei sensi comuni che una rappresentanza di quattro gatti abbia lo stesso valore di una obiettivamente più estesa), ma non agevole a sua volta da risolvere poiché nemmeno il sindacato tradizionale è nei fatti più di tanto disponibile e questa criticità, non marginalmente, rimanda niente meno che ad un’altra norma costituzionale da sempre in attesa di essere realizzata: l’articolo 39 sulla organizzazione sindacale, del pari non mai attuato né dai parlamenti né dai governi che si sono succeduti nella Repubblica.

Sotto il profilo economico, d’altro canto, il trasporto pubblico è stato lungamente, in particolare nelle aree urbane, il salotto buono del peggior consociativismo, a scopo di cassetta di reciproco potere, fra la politica locale, la pubblica amministrazione e il sindacalismo.

Le condizioni economiche delle aziende di pubblico trasporto di tante grandi città lo dimostrano inequivocabilmente anche per il tramite di un paradosso economico-giuridico: sono enti (teoricamente e praticamente) in fallimento che continuano ad operare, ovviamente sempre peggio, perché la via del risanamento comporterebbe sia la necessaria apertura di qualche armadio di troppo (e nessuno brama di vedere gli scheletri che intuisce esservi depositati ancorché dai suoi predecessori) sia l’esigenza di cambiare, da subito, abitudini e governo delle aziende.

Così si va avanti disperdendo ingenti risorse pubbliche che finiscono inutilmente nell’imbuto della mala gestio e dell’inefficienza, a loro volta (secondo una valutazione non di parte come quella della Corte dei Conti) nutrici della corruzione.

Ora i rubinetti delle fonti di finanziamento del Fondo Nazionale Trasporti sono più avari rispetto a qualche anno fa e l’attrazione delle amministrazioni locali, sempre salvi irrinunciabili presupposti ideologici, verso le aziende di trasporto pubblico risulta conseguentemente in diminuzione.

Il caso, limite sotto ogni profilo, ma comunque in buona compagnia, della città capitale sta portando all’attenzione (non si sa ancora con quali risultati effettivi) che anche per le pubbliche amministrazioni sarebbe a disposizione un articoletto costituzionale, il numero 97, il quale esorta verso l’equilibrio dei bilanci (assicurano si spinge a dire la Costituzione) e la sostenibilità del debito pubblico: anziché mantenere l’azienda di trasporti pubblica in condizioni ‘protette’ di rendita d’inefficienza e di spreco è possibile ricorrere alle gare ad evidenza pubblica (gare vere e non fasulle atte a far subentrare lo stesso soggetto a se stesso) e affidare il servizio a chi lo sa organizzare e svolgere (compreso il particolare di far pagare il biglietto al viaggiatore).

Ma questa, ahinoi, questa è ‘privatizzazione’ (indipendentemente dal fatto che il soggetto committente è -e rimane- il Comune) e sotto questa parola usata e abusata per tutte le stagioni come già anni addietro la sfortunata parola ‘democrazia’ (che infatti ha perduto ogni senso) è celata l’ambiguità, anche, di un probabile contenimento dei privilegi prodotti dal consociativismo e dall’ambiente protetto e dal denaro pubblico distratto alla comunità per proprio inefficiente uso e consumo: quindi vade retro e l’opposizione è ideologica fino al punto che, nella foga, si etichetta come privatizzazione e si paventa come tale perfino l’intervento delle Ferrovie dello Stato che sono di proprietà del Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Onde, nel panorama immobile del trasporto che rimane nei depositi, la motivazione formale di alcuni recenti scioperi è stata di scioperare per il diritto di sciopero e contro la privatizzazione.

 

LMPD

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