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EDITORIALE – Capirsi a 370 gradi

Insegnano gli studiosi che la lingua, essendo strumento di comunicazione vivo oltre che generale, è pressoché costantemente in fase di -più o meno percettibile- trasformazione. Si fa riferimento al concetto di lingua ‘parlata’ anche per significare questi processi (evoluzione e involuzione) che accompagnano lo svolgersi delle fasi della civilizzazione umana le quali non sempre appaiono procedere per linee rette.

Onde il significato e l’uso delle parole variano, in misura che di solito, ma non sempre, è più agevole individuare a una certa distanza di tempo, per una notevole quantità di motivi, anche in reciproca relazione: praticità, moda o vezzo, copiatura, imprecisione, sciatteria, ignoranza, manipolazione etc.

Agli interventi sul significato e l’uso delle parole conseguono, come è logico, modifiche più o meno registrabili (quantomeno lì per lì), ma sempre presenti, del significato e dei concetti cui si riferiscono.

Traendo, per esempio, qualche divertente e istruttivo caso dall’esperienza quotidiana, per l’azienda dei trasporti pubblici milanesi una voce garbata dall’altoparlante ricorda ai viaggiatori che l’azienda ha intensificato i controlli e quindi invita il pubblico a essere munito di titolo di viaggio valido per evitare spiacevoli equivoci con il personale di verifica, altrimenti identificabile come assistente all’utenza e non mai come controllore.

Nel burocratese corretto, quindi, la sanzione amministrativa che consegue all’essere pizzicati senza biglietto (o a saltare con grazia i tornelli) da parte dei controllori, pur rimanendo tale e quale nella sua sostanza economica misurabile in moneta, integra la più flautata fattispecie dell’equivoco.

Ohibò, a ben pensarci anche il cacciatore che impallina sparando nel folto (dove ancora esiste, si capisce) il compagno di battuta immaginando, viceversa, trattarsi dell’agognato volatile cade, tutto sommato, in un equivoco. E il distinto signore della pubblica amministrazione che distrattamente si è messo in tasca una busta d’ignota provenienza si scusa prontamente, se lo scoprono, dichiarando che pensava trattarsi dell’invito a nozze di un amico anziché di una mazzetta. Gli equivoci non finiscono mai e sarà forse opportuno, per maggior chiarezza di comunicazione, introdurre anche un concetto ulteriore -per rendere maggiormente graduabile la comunicazione- come, che so, disguido.

Un altro termine gettonatissimo è il lapidario e (quasi) inequivoco inaccettabile.

Se non che la valutazione circa essere una cosa o un’idea accettabile o meno dovrebbe svolgersi, per avere senso, nell’ambito di un processo, qualsivoglia esso sia, in qualche modo ancora in corso e pertanto suscettibile di ricevere effetti anche modificativi: una volta che l’evento sia (già) al passato, la valutazione di inaccettabile è priva di utilità, oltre che di logica, e assume soltanto un significato di generale negatività.

Così gli insulti appioppati all’avversario politico o i tramezzini immangiabili rifilati ai bambini dalla comunale refezione scolastica già mangiati o buttati nel cestino non sarebbero, invero, inaccettabili, ma, a scelta, vergognosi, abietti, vili, indegni, spregevoli, turpi…

La tendenza a standardizzare la lingua porta a un suo evidente indebolimento e alla progressiva incapacità di esprimersi se non per suoni vagamente gutturali (non me ne vogliano, ora, gli amici animalisti), ma nonostante tutto, nell’agone politico, spinti dalla necessità quotidiana dell’eloquio (parlai, sempre parlai, fortissimamente parlai) gli interpreti migliori trovano sovente la capacità di un colpo d’ala: così un ministro in carica a proposito della sanatoria per le pratiche edilizie di Ischia, annessa forse per relationem al decreto Genova, avrebbe dichiarato (stando alla stampa) che “non c’è alcun condono…sono provvedimenti per i cittadini del Centro Sud”.

L’importante sarebbe continuare a capirsi, sebbene a 370 gradi.

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