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EDITORIALE – Apota

Non sono esperto e lascio analisi, commenti e previsioni a chi per cultura e professione ne sa di più (ci vuole poco), ma scorrendo quel tanto, forse anche troppo, che passa quotidianamente il convento dei media qualche solitaria e scheletrica considerazione fa capolino per forza.

Anzitutto il desiderio sempre vivo, ma talvolta in prepotente crescita, di riuscire in qualche modo a raggiungere un (auto)sufficiente grado di apotia: pervenire cioè a un livello di autonomia intellettuale necessaria e sufficiente per non bersi ogni mistura presentata, anche ben infiocchettata, dal barista di turno, simpatico e capace oppure no che sia oppure appaia.

Perché questo significa essere apota (l’accento può andare sulla prima vocale o sulla seconda, come pare intendesse il suo inventore): voce dotta presa dal greco che Prezzolini coniò nel 1922 per indicare l’obiettivo di preservare un patrimonio di idee e di valori al di sopra delle lotte e dei contorcimenti politici contingenti e pertanto, in una parola, colui che non se la beve, ma pensa con la sua testa.

Montanelli la assunse a missione e criterio del giornalismo, cioè ricerca ed esposizione della verità e già questo basta a sottolinearne ai posteri sia l’ardua e difficile funzione (Quid est veritas? domanda sornione il moderno Pilato) sia la contingente sua precarietà in un mondo già simile a un caleidoscopio e per di più raccontato con la menzogna.

Nondimeno, a parte ogni criticità operativa e comportamentale che rende forse esile l’equilibrio del soggetto apota, permane comunque il valore morale ed etico di una consapevole tendenza per o verso indipendentemente, o quasi, dal risultato raggiungibile caso per caso.

Non basta infatti (auto)dichiararsi apota per esserlo o diventarlo, ma al contrario il rischio può essere, rovescio di ogni medaglia, di sconfinare nella superbia intellettuale preclusiva del rapporto umano.

Per non bersele tutte, dunque, e ragionare con la propria testa sugli accadimenti (i fatti separati dalle opinioni) è (sarebbe) necessario allora accedere alla conoscenza dei fatti ossia alle notizie reali e, possibilmente, in via diretta alle loro fonti prima che la ragion di stato, la politica, la disinformazione assunta come principio comportamentale utile all’offesa o necessaria alla difesa le inquinino in vario modo e grado.

Ma Hic sunt leones, qui stanno i leoni nel significato più letterale del termine perché a livello dei governi e delle autorità in genere la menzogna o la verità pro domo sua è, se non (sempre) d’obbligo quantomeno efficacemente raccomandata in prospettiva di autotutela permanente dei soggetti agenti.

Potrà accadere in misura più o meno difforme dal vero, cioè dal fatto, e in forma più o meno abilmente artefatta, ma il rischio esiste ed è sovente confermato da quanto avviene in prosieguo a preferenza di quanto viene, in corso, affermato o raccontato.

Così e. g. il conflitto principalmente fra Russia e USA, con il seguito UE, è stato per lungo tempo in bilico fra ottimisti, chiamiamoli così, che ora appaiono creduloni e pessimisti, chiamiamoli sempre così, che ora appaiono razionali oltre che ben informati avendo tutti attinto, per dire, al medesimo bailamme comunicativo: dalla sfacciataggine del presidente russo che, per dirne una, assicurava il ritiro dei carri mentre i satelliti lo sbugiardavano pubblicamente in tempo reale alla pervicacia del presidente americano nell’annunciare date e ore dell’inizio delle ostilità che, comportamento anche equivocabile dopo Kabul, ha finito per non farlo prendere sul serio neanche quando l’imbrocca: al lupo, al lupo!

I fatti sono, ora, i morti e le distruzioni tipiche di ogni guerra, ma sono anche, nella tragedia, la conseguenza visibile e necessaria di altri fatti che, al di là della comunicazione e spiegazione dei (troppo) molteplici esperti tali o presunti, rimangono celati dal diaframma insuperabile, quantomeno allo stato, della non veritiera o effettivamente completa conoscenza.

Che coinvolge in primo luogo anche buona parte di coloro che ne trattano professionalmente.

Ora, sempre e. g., l’individuazione del trionfale comunicato ufficiale del governo russo e del suo agiografico commento comparso erroneamente dopo solo due giorni su alcuni media ufficiali per annunciare la fine delle operazioni con il rientro dell’Ucraina nella Russia svela a posteriori alcuni fatti di tutto rilievo sebbene già intuibili: la dolosità del comportamento, il disegno premeditato, la certezza (ricorrente nei dittatori) di una facilità militare (Blitzkrieg) atta a sorprendere e zittire gli avversari fuori e dentro con il fatto compiuto, i corollari di bugie, la visione imperialistica e la connessa doppiezza etc.

Emerge il ritratto di un soggetto, in ultima analisi, che una persona normale, pur neanche troppo tendente all’apotia, difficilmente inviterebbe a cena a casa propria (con buona pace di diversi nostri garruli politici che se lo contendevano e ora fanno finta di niente o del past president USA -perfino possibile futuro revenant nell’alta carica grazie all’invidiabile spessore e comportamento dell’attuale- il cui motto corrisponde all’inutile messa in guardia del perseverare diabolicum).

Quello dell’apota è un ruolo difficile, come si intuisce, e in particolare in politica estera e relazioni internazionali ove, a parte venire a capo dei fatti, ancor più evidente che altrove sono i risultati delle selezioni all’incontrario che portano i protagonisti al potere in una prospettiva delineata non dal migliore, ma (quasi sempre) dal peggiore.

Vero è che sapere i destini del mondo condizionati da individui come il russo, l’americano e (non manca mai) il cinese preoccupa al pari, se non di più, dell’incubo del riscaldamento globale cui, a questo punto, si spera quantomeno di arrivare.

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