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L’EDITORIALE – Bandi e digitalizzazione

L’occasione è costituita da un bando, in questi tempi ne circola più d’uno e ne sono previsti anche altri, finalizzato a distribuire risorse alle micro, piccole e medie imprese (nella specie ubicate in Lombardia, ma anche altre regioni sono comunque attive in argomento) allo scopo di promuovere e incentivare la competitività del sistema economico territoriale per il tramite di un’azione sulla digitalizzazione (Piano Transizione 4.0 a seguito dell’approvazione del Progetto Punto Impresa Digitale -PID- da parte del ministro dello Sviluppo economico).

Gli obiettivi sono dichiaratamente ambiziosi e facilmente condivisibili: sviluppare la capacità di collaborazione fra MPMI (micro-piccole-medie imprese, l’uso burocratico degli acronimi è endemico: c’è chi ha provato a farne un dizionario, ma ha dovuto rinunciare) e fra esse e soggetti altamente qualificati nel campo dell’utilizzo di tecnologie I4.0 (Industria 4.0), promuovere l’utilizzo di servizi o soluzioni basate sulle nuove competenze digitali da parte delle MPMI (strategia definita nel Piano Transizione 4.0), incentivare modelli di sviluppo green driven orientati alla qualità e sostenibilità tramite prodotti/servizi con minori impatti ambientali e sociali.

Tanto premesso, un po’ di dettaglio.

L’intervento si concreta in un co-finanziamento al 50% e cioè la pubblica amministrazione eroga all’impresa assegnataria, essendocene ovviamente le condizioni, un contributo a fondo perduto a parziale copertura (al 50% appunto) delle spese ammissibili da sostenere obbligatoriamente onde partecipare all’iniziativa la cui misura varia da un minimo d’investimento di € 15.000,00 a un massimo di 50.000,00.

L’impresa può naturalmente investire anche di più, ma otterrà comunque al massimo un contributo di € 25.000,00.

I progetti devono riguardare l’introduzione/adozione di tecnologie digitali 4.0, analiticamente elencate, che prevedano esternalità positive in termini di ecosostenibilità e di risparmio energetico (soluzioni di economia circolare, fonti di energia rinnovabile, logiche di sharing, diminuzione del consumo d’acqua o di rifiuti) oppure favoriscano la sicurezza sul lavoro.

E le spese ammissibili sono in riferimento a tre specifiche tipologie: consulenza, formazione, acquisti di attrezzature tecnologiche e programmi informatici necessari.

Tutto chiaro, ma con due condizioni che se da un lato possono essere, almeno in parte, teoricamente comprensibili, dall’altro orientano il processo condizionandone pesantemente la realizzazione: le spese in consulenza e in formazione devono infatti essere pari almeno alla metà del totale e, più ancora, i soggetti in grado di erogarle non sono di libera scelta all’esito di un processo di scelta e qualificazione di merito da parte dell’impresa che intende investire, ma identificati obbligatoriamente a priori fra enti già individuati nel Piano Nazionale Transizione 4.0, nel Piano nazionale Impresa 4.0 e nei vari decreti ministeriali.

Evidentemente la pubblica amministrazione non si fida delle capacità operative di consulenza e di formazione delle imprese o dei professionisti scientifici nazionali (avrà le sue ragioni …) oppure, dato che il co-finanziamento è fatto di denaro suo, intende girarlo, seppure indirettamente, a chi preferisce.

E la realizzazione del progetto, una volta ammesso, va poi di fatto in questo modo: prendendo a esempio il livello di investimento minimo (€ 15.000,00) , l’impresa spende di suo € 7.500,00 in ferraglia e programmi informatici (HW/SW per rimanere in tema: in questo caso l’acquisto è libero e non ci sono vincoli: tanto i computer li fanno tutti nello stesso posto e i soldi finiscono in Cina) e quanto riceve a titolo di consulenza e di formazione, spesa in ogni caso obbligatoria come già detto, lo trasferisce pari pari ai soggetti scelti dal ministero.

 

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