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L’EDITORIALE – Corruzione

Non è il caso di tornare a parlare della corruzione sotto il profilo della sua illiceità e della sua dannosità per la società civile, in particolare in un Paese ove le risorse economiche, non collegate a ricchezze naturali, ma derivanti da processi di valore aggiunto sono sempre scarse e inferiori al minimo necessario: è infatti certo che chi è sensibile all’argomento ne sia già, e da tempo, conscio oltre che oramai stanco di sentirne parlare. Quantomeno nella proporzione in cui non sono attuate azioni correttive sufficienti.

Le quali però, in realtà, non sono per nulla semplici da immaginare (ancora ben prima che da adottarsi) perché si devono misurare con il medio livello morale di una società la quale, in buona parte, ha sostanzialmente disperso i riferimenti etici di base.

Precedentemente forniti, almeno per tabulas (sebbene non necessariamente attuati perché diversamente la civilizzazione avrebbe realizzato ben altri progressi), ai credenti dalla religione e ai non credenti da un senso civico sufficientemente diffuso e condiviso, sono ora, essi riferimenti, quasi sempre rimasti ancorati unicamente alle leggi positive, in particolare penali.

E questo spiega la loro cronica infermità poiché, da un lato, pochi si preoccupano delle leggi e, dall’altro e allo stesso tempo, la giustizia non è in grado di arginare la disobbedienza e l’illecito: arriva usualmente in ritardo, lento pede e con efficacia limitata a quantità (numeri) ben inferiori al reale.

A parte i bisticci ideologici d’uso, è evidente che la normativa penale, a prescindere dal suo non sempre limpido inquadramento e agevole applicazione alle varie condotte illecite, è assolutamente necessaria, ma desolatamente insufficiente al mantenimento della legittimità in genere se (e in quella parte che) ai consociati difetta un minimo di condivisa moralità.

E’ evidente che, rispettando in ciascuno la libertà (divina) di non credere Dio, basterebbe l’osservanza terricola, pur anche un po’ approssimativa, di tre dei sette comandamenti dedicati ai rapporti umani per migliorare significativamente lo scenario corruttivo e non solo.

Ai sensi del combinato disposto, come usano dire i legulei, del n. 7 (non rubare), del n. 8 (non dire falsa testimonianza) e del n. 10 (non desiderare la roba d’altri) si potrebbe mettere da parte, senza rimpianti, una caterva di molte altre norme e regolamenti e grida più articolate e complesse da leggere, da interpretare e da applicare.

Ma la chiave di volta dell’argine alla corruzione non è, con buona pace degli esperti e forse anche del Ministro Guardasigilli, promettere una garanzia di non punibilità al reo che volontariamente auto-denuncia (come ha osservato il procuratore Cantone la norma c’è già: è l’art. 323 ter del codice penale introdotto da Bonafede) sibbene nella psicologia (e grado di senso morale) delle persone.

La causa di non punibilità in parola non funziona perché, a parte le sue condizioni -denuncia prima della notizia delle indagini e comunque entro quattro mesi dal fatto (ci vuole una folgorazione sulla via di Damasco) etc.- il reo delinque in quanto sostanzialmente certo o ben confidente di farla franca a motivo della confluenza della sua abilità e della incapacità (peraltro difficile dargli del tutto torto) della umana giustizia a trovarlo.

E, nel caso, se anche mette in prospettiva di poter essere colto con le mani nel sacco procede comunque nel suo proposito all’esito di una razionale analisi di cui rimane chiaro e quasi insuperabile esempio la dichiarazione (pubblicata a suo tempo da Cesare Lombroso) resa da un ladro professionista al prefetto di Parigi in cui dimostrava che rubare, pur a costo di sfortunati periodi detentivi, era e rimaneva per lui attività comunque e di gran lunga ben più remunerativa rispetto alla fatica e alle incognite del vivere onestamente.

Parigi val bene una messa e accedere a lucrosi contratti, consulenze, posti di lavoro, consigli di amministrazione etc. vale la candela.

La corruzione, come il furto cui essa non troppo si discompagna, c’è sempre stata e, per quanto concerne il Bel Paese, basta considerare la storia di Roma caput mundi fin dall’ordinamento repubblicano e senza parlare di quello imperiale.

Forse quello che sorprende maggiormente di un fenomeno tanto massivo e pervasivo è, sotto il profilo socio-geografico, il fatto che la carta della UE indicante la sua localizzazione delittuosa sia colorata di rosso acceso nella parte meridionale e orientale (fra le nazioni nuove entrate, per intenderci).

Tutto il mondo è paese, si capisce, ma qualcuno è più paese di altri e l’Italia, a esempio, registra una evasione dell’IVA di quattro o cinque volte quella di Francia o Germania.

Alle persone oneste non fa evidentemente piacere conoscere, fra le tante disgrazie, i fatti di recente scoperti dalla procura federale a Bruxelles, con indagini in corso non prossime al termine, ma ancora meno che i nomi intorno ai quali, per ora, si verte siano in buona parte italici oltre che greci (due grandi ex civiltà progressivamente insabbiatesi): se proprio doveva capitare, forse qualche assonanza un po’ più nordica rispetto a quella dei soliti noti avrebbe reso men dura la scoperta che nord africani e medio orientali, propostisi di regolare al meglio i propri interessi ricorrendo alle antiche mazzette di piccolo taglio (considerando, tra l’altro, che a casa loro così come in Cina o in Russia la corruzione non è reato all’occidentale, ma soggetto a elastiche valutazioni di funzionali convenienze politiche) abbiano, in un vasto coarcevo occidentale europeo di cui non sembrano avere grande stima (se hanno mirato proprio al cuore dell’istituzione), scelto i soggetti considerati più disponibili e più a basso costo di tutti: quelli colorati di profondo rosso.

Lo scenario desta una particolare ribrezzo considerando come, e. g., sul trattamento riservato ai lavoratori fatti immigrare per le faraoniche opere edili della Coppa mondiale non ci sia stata né ci sia trasparenza o considerazione, anzi: ufficialmente sarebbero morte poche decine di lavoratori e neanche per causa di lavoro, mentre per Amnesty International e Human Rights Watch e secondo le inchieste pubblicate sul Guardian di Londra sarebbero state diverse migliaia: i soldi e il business hanno coperto tutto come la sabbia del deserto.

Per di più traspare una ONG il cui coinvolgimento, ove confermato, non farebbe onore al suo romantico nome (Fight Impunity), ma si confida sia, questa, almeno l’occasione per provocare un serio ripensamento intorno alle ONG nella cui galassia, sfruttando la luce delle molte organizzazioni benemerite, potrebbero nell’ombra muoversene altre di dubbia valenza.

Inoltre, se le indagini comproveranno le tesi accusatorie, coperture al mercimonio sarebbero state operate perfino da parte di chi aveva per molto tempo militato nel sindacato con l’obiettivo di fornire promozione e protezione ai lavoratori: ora emerge che la miseria degli ultimi della terra provenienti da Pakistan, Bangladesh, Sri Lanka, India, Nepal e da diversi paesi africani -mano d’opera vile la cui importazione era necessaria per lavori che i locali non sono disposti a fare (uso presente anche in altri ricchi Paesi della zona)- non suscitava l’interesse di nessuno, ma forse perfino qualche pensiero contrario.

Ma la storia si ripete: anche la tratta dei neri d’Africa verso l’America era in mano ad Arabi (e Berberi) in affari lucrosi con i trafficanti e negrieri europei.

 

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