HomeDialogandoL’EDITORIALE – Riforma della Giustizia

L’EDITORIALE – Riforma della Giustizia

Fra le varie istanze di riforma che con comprensibile regolarità appaiono sullo scenario politico quella della giustizia è una delle più ricorrenti: per diverse ragioni che, anche partendo da punti di osservazione differenti, confluiscono nel medesimo obiettivo.

Nello Stato moderno vige il principio fondamentale (e in Italia altresì costituzionalmente sancito) della separazione e rispettiva autonomia dei suoi poteri sovrani identificati come legislativo (parlamento), esecutivo (governo) e giudiziario (magistratura).

La tripartizione, ovviamente se e in quanto in regime di effettiva e reciproca autonomia, costituisce la prima condizione istituzionale necessaria a costruire e mantenere la struttura dello Stato libero e democratico e basta in argomento  considerare, anche solo superficialmente, le vicende passate e presenti degli stati autocratici per avere la prova che colà di norma, indipendentemente dalle autodefinizioni di comodo, parlamento e magistratura sono invece dipendenti o variamente succubi del governo.

La (da più parti) costantemente invocata riforma della giustizia, quindi, non ha nulla a che vedere con una correzione del principio costituzionale, a livello dei poteri sovrani, ma piuttosto con il suo spesso ansimante quotidiano funzionamento come ben sanno i cittadini che, volenti o nolenti, hanno a che farne.

E la prova è data da una sommatoria di varie circostanze che, per esempio, fa talvolta apparire la consueta dichiarazione di ‘avere completa fiducia’ sotto la luce più di una pratica apotropaica che di una reale confidenza verso la legge e la sua applicazione, confidenza che dovrebbe viceversa scaturire dalla garanzia offerta dallo Stato libero e democratico.

Che, come ogni altra umana costruzione, è a sua volta sempre largamente e profondamente migliorabile, ma che deve comunque garantire determinate condizioni di base.

Anche gli altri due sovrani poteri -legislativo (parlamento) ed esecutivo (governo)- avrebbero bisogno assai di qualche ritocco, ma qui il discorso si fa ancora più delicato e sul piano dell’esperienza pratica ulteriormente difficoltoso poiché, a prescindere dalle rispettive normative istituzionali e di funzionamento, essi dipendono in larga misura dalla qualità umana disponibile: chiunque è libero (per fortuna oltre che per legge) di darsi alla politica e il perimetro vale quindi anche per qualsivoglia balabiott senza arte né parte che intenda entrarvi onde, se vi riesce, non ha poi senso contrapporre la società civile alla società politica in termini di meglio e peggio posto che i contenuti della seconda sono comunque forniti dalla prima e se, in un determinato periodo storico, il livello medio etico-morale oltre che civico di un popolo è quello che è, ciò tende inequivocabilmente a riflettersi anche negli insiemi della politica.

E’ quello che passa il convento e ci si deve razionalmente accontentare confidando, non si può mai sapere né escludere a priori, nel miglioramento.

E in ogni caso tenendo presente, anche per una forse opportuna stimolazione socio-civico-etica all’auspicato miglioramento, che da nessuna parte è scritto né garantito che una civiltà, per quanto di nobili origini, debba rimanere per forza sullo scenario dell’orbe, come ampiamente dimostrato dai numerosi esempi di cui la Storia è cortese.

Il caso del potere giudiziario è, in verità,  diverso poiché, a differenza degli altri due, predispone meccanismi di ingresso, di gestione, di tutela e di manutenzione (diciamo così) che, in completa autonomia, dovrebbero (rectius: devono) fare la differenza: ed è questa differenza, appunto, a tenere comunque viva, seppure anche solo istintivamente, l’attenzione dei cittadini, almeno di quanti non hanno interessi specifici o aspettative personali nel malfunzionamento della giustizia.

Ci sono de’ giudici a Berlino”, frase tratta dalla nota vicenda del mugnaio Arnold di Sans Souci che -impegnato in lunga vertenza civile davanti a giudici corrotti contro un potente nobile, proprietario del mulino, cui non riusciva più a pagare l’affitto avendogli colui deviato gran parte dell’acqua per una sua pescheria- si reca infine nella capitale per cercare giustizia (vicenda raccontata da Enrico Broglio, 1880, nel libro Il Regno di Federico di Prussia, detto il Grande) è il compendio di questa sentita e diffusa aspirazione: giustizia imparziale su cui possano contare tutti, indipendentemente da circostanze di persona, tempo o luogo.

Il giudice di Berlino, che poi coincideva (siamo nel 1779) con lo stesso sovrano Federico II, dette ragione al mugnaio e intervenne sui magistrati corrotti, bastandogli a decidere otto mesi dalla presentazione del ricorso.

Ben venga quindi una (la) riforma della giustizia sebbene il profilo di taluni suoi sostenitori contribuiscano a mettere una pulce nell’orecchio circa la destinazione o il punto d’arrivo della medesima.

Ma questo attiene alla politica ed è democraticamente fisiologico.

E il primo attore protagonista in questo necessario (per l’Italia) processo dovrebbe (deve) essere proprio il potere giudiziario chiamato a prendere atto dell’accadimento di fatti gravissimi, come rimarcato dal Presidente della Repubblica al nuovo Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), e tali da vulnerare la fiducia di troppi cittadini, nonostante la persistenza nel suo organico di tanti impegnati a compiere costituzionalmente il proprio dovere, e conseguentemente a ricostruire uno schema operativo che, correggendo storture e deviazioni, garantisca al meglio ed efficacemente la funzione.

Ora ci si trova, viceversa, nell’assurdo di una tenzone già in atto a opera di un ministro che, tra l’altro, neanche ha ancora presentato un progetto o linee guida, ma solo fatto sollevare un polverone su un di cui, peraltro sostanziale, che è l’intercettazione, strumento necessario non solo nelle indagini di mafia, ma anche del vasto sottobosco che agevola e sostiene l’attività mafiosa (corruzioni, frodi fiscali etc) nella confusione più ampia fra l’intercettazione in sé come atto d’indagine (quel tanto o quel poco che si è realizzato verso la mafia non sarebbe stato possibile senza le intercettazioni) e la pubblicazione impropria o illegale di suoi contenuti sui media che non avviene -si può convenire- per magia, ma a seguito di comportamenti di uffici pubblici.

 

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